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di Ilaria Piromalli

 

È il 1902 quando il governo italiano e il governo francese siglano un accordo di reciproca neutralità in caso di guerra, che riconosce piena libertà d’azione all’Italia per l’occupazione delle regioni africane della Tripolitania e della Cirenaica, mentre alla Francia per il Marocco. Al contempo il governo inglese auspica che nelle medesime regioni venga mantenuto lo status quo, aggiungendo prontamente che qualora questo fosse stato modificato, non avrebbe comunque compromesso i loro interessi. Un assenso ambiguo, ma pur sempre un assenso.
È questo il momento in cui si fondano le vere premesse perché l’Italia, dopo il sogno spezzato di Tunisi, inizi la sua impresa coloniale nei territori che compongono l’attuale Libia. Nel periodo immediatamente antecedente e nel corso della storia più in generale, la Libia come stato non è mai esistito, al contrario è composto da quello che qualcuno ha definito un “coarcevo di tribù e clan” che hanno visto il succedersi di varie dominazioni, la più rilevante quella Ottomana, durata tre secoli all’incirca.
Il 1902 rappresenta un anno di particolare rilievo tuttavia non solo perché il governo francese e inglese acconsentono alle ambizioni coloniali italiane. L’accordo tra il governo italiano e quello francese lega la questione libica a doppio filo con quella marocchina, una delle motivazioni per cui, nel 1911, allo scoppio della seconda crisi marocchina, con la Germania opposta all’annessione francese, l’Italia, il 17 settembre, decide di dare il via alla spedizione libica, assunta in segreto dal re Vittorio Emanuele III e dall’allora Primo Ministro Giovanni Giolitti in un incontro al Castello di Racconigi.

Libia

Giovanni Giolitti nel 1911 dichiara guerra all’Impero Ottomano per il controllo sulle regioni della Tripolitana e della Cirenaica, a cui successivamente verrà annessa quella del Fezzan. Le regioni vengono ottenute con fatica e i primi segnali di cedimento arrivano durante la Prima Guerra Mondiale, con la ribellione delle tribù dei Senussi che mette a dura prova la tenuta italiana sui territori.
La riconquista della colonia, effettuata tra il 1922 e il 1932, viene affidata al Generale Rodolfo Graziani: è uno dei primi casi della storia di guerra chimica. Sui civili verranno utilizzati metodi brutali, tra cui gas asfissianti e il ricorso ai campi di concentramento, dove si stima siano state presenti 100.000 persone.
La colonizzazione italiana dura fino al 1947 al seguito del quale, con la Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 15 dicembre 1950, viene ratificato con la legge n. 843/1957 “un Accordo di collaborazione economica e di regolamento delle questioni derivanti dalla Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 15 dicembre 1950 e […] concluso in Roma il 2 ottobre 1956” (http://www.airl.it/accordi-e-trattati/item/333-legge-17-08-1957-n-843). L’Italia con la firma all’Accordo si impegna al pagamento di un indennizzo derivante dai danni dell’occupazione coloniale, unitamente al passaggio di tutte le infrastrutture costruite al nascente stato libico. Da lì si apre un percorso di “transizione verso la repubblica“, che si conclude nel 1969, e che ha le stesse complesse caratteristiche di tutte quelle transizioni che in quegli anni si verificano tra Africa Settentrionale e Medio Oriente, ed esattamente tra Egitto, Turchia, Siria, Libano, Pakistan, Sudan, Iraq, Tunisia, Yemen, fino all’Iran nel 1979.
In questi contesti, per intenderci, il concetto di repubblica non ha assunto le stesse caratteristiche europee o americane, come descrive lo storico Bernard Lewis, e secondo le usanze, tranne qualche eccezione, vengono ricomprese all’interno della categoria una vasta gamma di realtà politiche. Il concetto di repubblica, in tal senso, non si riferisce al modo in cui il capo viene eletto o il modo in cui esercita il potere: la Repubblica viene considerata come uno Stato dal capo non dinastico.
Questo il motivo per cui l’ascesa di Mu’ammar Gheddafi con il colpo di stato messo a segno nel 1969 e la deposizione di Re Idris I porterà al passaggio, almeno da un punto di vista formale, dalla monarchia alla repubblica.
Il rais, da parte sua, ha una grande popolarità, in parte dovuta all’emulazione di Gamal Abdel Nasser, leader egiziano, e sotto il placet dei suoi compatrioti porta avanti un programma di riforma per la Jamariyah Libica Araba e Socialista, il Grande Stato delle Masse Socialiste Libico, finalizzato alla creazione di uno Stato islamico e socialista, unendo politiche economiche e sociali a precetti religiosi, nazionalizzando le risorse naturali e infine eliminando la presenza estera sul territorio. Il “manifesto” politico di Gheddafi viene trascritto all’interno del “Libro Verde”.
Nell’arco di pochi anni, tuttavia, inizia a emergere una dittatura ben diversa da quella di Nasser. Il culto del leader e la retorica rivoluzionaria che inneggia a un nazionalismo religioso assumono sempre più le forme del regime iraqueno di Saddam Hussein e di quello siriano di Hafez al-Assad. I tre regimi vengono ricordati per gli apparati di scurezza “più brutali e onnipresenti al mondo”.
Durante i primi dieci anni di governo, Gheddafi realizza un’equa distribuzione dei profitti derivanti dal petrolio, con un vasto piano di modernizzazione infrastrutturale e dei servizi, opere che, unite a un sistema politico a democrazia diretta e alla rivoluzione culturale, avvicinano il popolo libico al suo dittatore. È su questi presupposti che nel 1979 Mu’ammar Gheddafi rinuncia a ogni carica politica per assumere il titolo di Guida della Rivoluzione, che terrà fino a Ottobre 2011, quando morirà per mano delle forze armate ribelli sollevatesi otto mesi prima durante le cd Primavere Arabe.
 

L’Italia

Il confronto italiano con l’area mediterranea nel Dopoguerra vede una bassa presenza diplomatica e un’assenza di progettualità nonostante la vicinanza alla zona e la concreta possibilità di sviluppare dei rapporti finalizzati anche al suo sviluppo. Le iniziative neo-atlantiche di Gronchi, di Fanfani, di La Pira, di un giovane Moro e di Mattei rappresentano solo un aspetto di quello spirito internazionalista che guarda con progettualità a un’area così prossima. Quella progettualità strategica, in particolare, riguardava ENI.
La questione petrolifera in tal senso ha occupato un aspetto di rilievo nel confronto dell’Italia nel Mediterraneo e con la Libia, maggiore detentore di riserve di petrolio in Africa, e ha tenuto in vita i rapporti sul fronte economico già nel decennio successivo alla “cacciata degli italiani” – nel 1970 Mu’ammar Gheddafi espelle tutti gli Italiani presenti nel Paese e proclama, contro la fase coloniale, “la giornata dell’odio”.
Passando oltre la parentesi relativa agli anni Ottanta, di cui vale la pena di ricordare tuttavia un progressivo allontanamento dalla Nato della Libia voluto in particolare dall’allora Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, a cui non corrisponde un eguale allontanamento italiano, il corpo di pretese e di danni derivanti dall’occupazione coloniale torna ad avere un peso nella mente di Gheddafi, ed è su questa scia che viene firmato il comunicato congiunto Dini-Mountasser il 4 luglio del 1998. Sarà con l’inizio del nuovo Millennio però che quel processo di riconciliazione subirà un’accelerazione. In particolare è il Governo Berlusconi II e III a guidare un percorso che conduce nel 2008 alla firma del Trattato di Bengasi.
 

Il Trattato di Bengasi

Quando Mu’annar Gheddafi e Silvio Berlusconi firmano il Trattato di Bengasi è il 30 agosto 2008.
Ratificato dall’Italia il 6 febbraio 2009 e dalla Libia il 2 marzo nel corso di una visita di Berlusconi a Tripoli, il trattato trova le sue ragioni nelle relazioni economiche, in continuità con il comunicato Dini-Moutasser (ENI, investimenti Gheddafi in Fiat e Unicredit), e comporta per l’Italia l’onore del pagamento di 5 miliardi di dollari alla Libia quale “compensazione dell’occupazione militare subita”, che come contraccambio riceve l’impegno della Libia ad adottare delle misure per combattere l’immigrazione dalle sue coste. Il controllo delle frontiere terrestri della Libia, da previsione, sarebbe stato affidato “a società italiane in possesso delle necessarie competenze tecnologiche” e i cui costi dovevano essere sostenuti al 50% dal governo italiano e al restante 50% dall’Unione Europea.
Le misure tra le altre contano la prassi del respingimento delle persone provenienti dalla Libia, un provvedimento costato all’Italia una condanna da parte della CEDU per le espulsioni effettuate nel 2009. In particolare con la sentenza del 23 febbraio 2012 nel caso Hirsi c. Italia, per violazione indiretta dall’art.3 della Convenzione dei diritti dell’uomo, si delinea uno dei maggiori limiti e di vincoli all’adesione nell’espulsione degli stranieri, rappresentato dalle convenzioni internazionali. Nella fattispecie l’art. 3 nella giurisprudenza CEDU vieta le pratiche della tortura, dei trattamenti disumani o degradanti, ove leading case nella materia è rappresentato dal caso Soering c. Regno Unito, ma l’Italia ha già un precedente con il caso Saady c. Italia. La Libia non ha mai aderito ad alcuna convenzione sui diritti umani o diritti del rifugiato, un elemento che non l’ha inquadrata in passato come non la inquadra tutt’ora come un porto sicuro.
 

Convenzione di Tripoli

Carta di Laura Canali, febbraio 2019

Arriva il 2011, è l’inizio del cd Primavere Arabe, quella fase di profonda protesta che ha attraversato l’Africa Settentrionale e il Medio Oriente, simbolicamente fatta coincidere con il gesto di protesta di Mohamed Bouazizi, giovane venditore ambulante tunisino che il 17 dicembre 2010 si è dato fuoco nella cittadina di Sidi Bouzid per protestare contro le continue vessazioni da parte delle forze di polizia locale. Frattini annuncia la sospensione de factodel trattato e la decisione di appoggiare l’intervento NATO.

La protezione degli interessi economici – con l’inizio del conflitto le aziende italiane subiscono danni che ammontano all’incirca a 100 milioni – ci porta a tornare a parlare di Libia. Ed è su queste premesse che il 21 Gennaio 2012, l’allora Ministro degli Interni Anna Maria Cancelleri firma la Convenzione di Tripoli, che si sviluppa sui parametri della formazione del personale libico, dell’allestimento di centri di accoglienza e primo soccorso attraverso il supporto della Commissione Europea, del monitoraggio dei confini, del rientro degli irregolari in coordinamento con l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, della realizzazione di un registro di gestione dati anagrafe e la previsione di metodologie atte al monitoraggio della situazione. Nell’Accordo non vengono mai nominati rifugiati o richiedenti asilo.
Gli Accordi verranno resi noti con grande ritardo, mentre le richieste a che il governo avvì un processo di trattazione che consenta lo svolgimento di attività di protezione quali la registrazione, la determinazione dello status di rifugiato e la presenza dell’ONU all’interno dei centri di detenzione non mancano. È il 2012 e la richiesta è che la cooperazione con la Libia favorisca un miglioramento dei diritti umani nel Paese, ma questo non è successo prima, non è successo dopo…
Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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