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di Ilaria Piromalli

egli ultimi mesi e in particolare nelle ultime settimane abbiamo voluto raccogliere il contributo di attivisti, giornalisti, giuristi, operatori e persone che non rappresentano semplicemente un tema, ma la società italiana. Insieme ai video che in queste settimane sono stati pubblicati sulla pagina dei Giovani Democratici di Milano, questi contributi vogliono raccontare i migranti, ma non solo, perchè attraverso queste figure non vogliamo fare altro che raccontare noi stessi.
Uno dei più grandi errori che la politica sul tema migratorio ha da sempre commesso risiede nella sua autoreferenzialità, o, se vogliamo, meglio, nella presunzione di immaginare, partendo dall’assunto teorico, cosa è necessario per “risolvere un’emergenza”, o peggio ancora, “gestire una crisi”. Immaginando un noi e un loro e due velocità di marcia differenziate. Non ci siamo mai fermati però a pensare che se due entità che condividono lo stesso Paese, lo stesso sistema burocratico e lo stesso impianto produttivo (e potremmo continuare) procedono a due velocità diverse, a rallentare è il sistema nel suo intero.
In questi mesi quello che abbiamo scoperto è che nei campi i migranti ci lavoravano anche negli anni Ottanta, di come l’estetica dei luoghi diventi un valore aggiunto per l’integrazione e come il degrado urbano diversamente la renda più complessa, e ancora di come ci sono rotte in cui rischi di annegare, ma altre in cui perdi te stesso un pò alla volta.
Abbiamo ascoltato le persone e vogliamo continuare a farlo, perchè non possiamo più permetterci delle risposte spotted.
La prima intervista, e più precisamente la prima parte, è a Stefano Galieni, attivista, giornalista e responsabile Immigrazione di Rifondazione Comunista, già autore di “Mai più. La vergogna italiana dei lager per immigrati”. Stefano si occupa di Immigrazione da ormai 30 anni. Abbiamo parlato degli stereotipi, del valore delle persone e delle rotte, ma per queste ultime, dovrete aspettare “il prossimo episodio”.
 
Ilaria Piromalli: Ciao Stefano, tu hai una lunga esperienza non solo da giornalista che racconta la storia di chi fugge, delle violazioni, delle assenze di tutele che si perpetuano fino a oggi, ma anche da attivista: come nasce questa vocazione e, nelle storie che tu hai avuto modo di sentire negli anni, quali sono i punti d’incontro? C’è una sorta di continuità?
Stefano Galieni: Io mi considero un privilegiato, e non lo dico per retorica, perché per una serie di incontri particolari è dal 1989 che mi occupo in maniera più o meno continuativa di immigrazione. Le ragioni sono tante, attengono al fatto che i miei genitori erano scappati dalle proprie terre, padre sardo e madre marchigiana, per trovare un futuro qui a Roma, anzi, prima in giro per l’Italia e poi a Roma. Attengono alle letterature: mi innamorai di un romanzo africano di uno scrittore straordinario, Sembène Ousmane, anche regista, senegalese, che purtroppo non c’è più adesso. Il fumo della savana racconta di uno sciopero del 1947 da parte dei ferrovieri senegalesi dell’epoca che volevano lo stesso salario dei lavoratori francesi e che fanno un corteo guidati da una prostituta: diciamo che tu c’hai un impatto del genere, già parti male.
E poi incontri le persone, incontri questo Paese che è cambiato, incontri il fatto – questo mi era accaduto precedentemente – quindi davvero l’approccio è molto personale, io nell’83 mi trovavo senza una lira, andai a fare la raccolta di pomodori prima, di nocciole poi nell’alto Lazio e mi ritrovavo a essere uno dei pochi italiani, eravamo un gruppetto di italiani scalcagnati, tra cittadini che arrivavano dall’Egitto, dal Senegal, dalla Guinea Bissau, da mezzo mondo… ancora non c’era la legge Martelli, ancora non esisteva l’idea dell’immigrato irregolare, erano lavoratori e lavoratrici, bada bene. E lì scopri che c’è un mondo diverso dal tuo e non per il colore della pelle, ma per le storie che si portano dietro. Quando conosci il ragazzo senegalese che raccoglie 5 volte il numero di casse che raccogli tu italiano con le spalle a v, e la notte studia per laurearsi in Medicina mentre tu non vedi l’ora di buttarti a dormire perchè non ti tieni più in piedi, scopri un’energia che è diversa, un mondo che è diverso e lì cominci ad appassionarti.
Da storia nasce storia e in qualche maniera, io non riesco a generalizzare, però, ecco, il bilancio è che in 32 anni ho conosciuto tante splendide persone e tanti figli di buona donna, tanti uomini e tante donne con aspirazioni uguali alle nostre, tanti che spiegavano a me che dovevo avere più energia e tanti che pensavano che era soltanto il bianco che poteva risolvere i problemi. I rapporti poi diventano interpersonali, diventano amicali, sono fatti di risate e di sofferenze, di incontri di persone che ti perdi per 10 anni e dopo ritrovi attraverso un telefono dove ti si dice “Stefano ti ricordi di quella volta che tu mi hai dato una mano per la cittadinanza, ora ce l’ho e ho aperto un autolavaggio! Quando vuoi venire da me la macchina per te sempre gratis”…. Sono microstorie in cui forse l’insegnamento fondamentale che ne ho tratto è che non esiste il popolo degli immigrati, esistono gli uomini e le donne, spesso anche i bambini per altro, con delle storie individuali articolate, fatte di gioia e di sofferenza, di bellezza e di cattiveria, ognuna delle quali è un piccolo pezzettino di un mosaico. E più le impari a leggere, più capisci che la distanza fra te e l’altro è minore, più ti senti parte integrante di quel tipo di umanità. Quando sento certe generalizzazioni e certi stereotipi la ragione per cui mi arrabbio non è soltanto perché lo stereotipo è spesso negativo, ma anche perché non rappresenta minimamente la realtà. Non è nulla di diverso da quelli che dicono che i giovani sono tutti uguali, che non hanno valori… è una cavolata! Oppure “solo la musica dei miei tempi era valida quella di adesso non vale niente”. Mi permetto di chiudere altrimenti parlerei 6 ore con due microstorie: c’è un quartiere romano che si chiama Tor Bella Monaca. È un quartiere duro in cui soprattutto nelle medie inferiori i bambini vengono lasciati a se stessi, in cui c’è una depressione, un pessimismo, un sentirsi condannati alla marginalità che riguarda ragazzi e ragazze italiane. Ho conosciuto un’insegnante, una di quelle che fa l’insegnante perché ci crede, che ha tentato di coinvolgere questi ragazzi attorno un’ipotesi di futuro. Mi ha detto che l’unica soddisfazione gli è stata data da una ragazzina di 12 anni italo-nigeriana che rispetto alla domanda “Cosa vuoi fare da grande” mentre le risposte degli altri compagni erano “E che ne so mica c’ho la boccia di vetro” oppure, peggio ancora, “io non so fa niente”, che detta a 12 anni è terribile, ha risposto “io voglio diventare una neurochirurga”. Ora, non è detto che ci riesca, ma è una bambina che sogna e lo scarto con i suoi compagni è micidiale. La seconda microstoria riguarda la stazione di Catania, posto tremendo in cui i bambini che arrivavano soprattutto dalla Eritrea venivano fatti prostituire da adulti, spesso proveniente da altri Paesi, bambini che però venivano fatti prostituire con adulti italiani, che è una cosa… a me soltanto sentì ‘ste cose immagina te come dormivo la notte. Questi ragazzini che si fidavano di una mia amica, e siccome io ero un suo amico, si fidavano anche di me, la prima cosa che facevano quando arrivavano a Catania era cercare internet per scrivere ai genitori “sono vivo”, “ce l’ho fatta”, “Non lo so quello che farò, però vado a Roma”, “però vado a Milano”…. allora capisci come faccio a non starci dietro a queste storie?
IP: Questo ci porta un po’ alla seconda domanda. Di fronte a delle storie così umane, da cosa nasce lo stereotipo?
SG: Eh, bella domanda, secondo me nasce da tante ragioni. Intanto dalla paura: noi siamo stati educati ad aver paura soprattutto del povero, di chi è marginale perché se il nero si chiama Diawara o Pogba, o un altro giocatore di calcio milionario, parliamo di un grande giocatore, è uno straordinario giocatore. Ma se si tratta di una persona che dorme vicino alla stazione ti fa paura. Quindi non è non è solo il colore della pelle che determina lo stereotipo, ma è la condizione di vita che determina lo stereotipo. Noi abbiamo paura di diventare come loro, di diventare poveri come loro. Quando si parla del migrante se ne parla quasi unicamente ormai, almeno se non in ambiti migliori, come poveri, come sfruttati, come braccianti, come badanti, come muratori quando va bene, mai che se ne parli come persone che hanno una vita propria, che fanno delle cose interessanti, che diventano registi, scrittori oppure che hanno una vita personale ricca e complessa.
Quello che sta cambiando le cose è la scuola: l’arrivo dei minori di prima e di seconda generazione anche ormai, lo sta facendo un pò saltare lo stereotipo perché quello che ti sta in classe è tanto simile a quello che poi disprezzi quando lo vedi rappresentato in TV sul barcone, e questo le crea un po’ di di contraddizione.
Il secondo punto è che c’è bisogno di avere un nemico. Avere uno stereotipo significa avere un indistinto su cui scaricare tutte le proprie frustrazioni, tutti i propri fallimenti, le ansie, il bisogno di affermazione proprio. Quando ero giovane io, e qui rimpiango i vecchi tempi, scusa ma ci vuole, eravamo abituati all’idea che il nemico fosse il padrone. Adesso Il padrone non lo vedi più, ci fa quasi indistinto, o non lo vuoi vedere, e ora te la prendi con chi sta peggio.
A me non piace il termine guerra fra poveri perché la trovo finto: è una guerra del penultimo contro l’ultimo in cui tu te la prendi con chi pensi che mette a repentaglio la tua vita, la tua qualità della vita, perché non hai la capacità, gli strumenti, i tempi e le condizioni di vita per prendertela con chi realmente non ti permette di vivere in condizioni uguali o migliori.
 
IP: E allora, in controtendenza, perché non valorizziamo le persone? Perché non è mai stato avviato un racconto che racconti la verità semplicemente?
Intanto perché è pericoloso. Se ci pensi noi non valorizziamo più neanche gli altri che sono intorno a noi. Pensa lo stereotipo femminile come tranchant, pensa ai nostri luoghi che sono sempre più microscopici. Io mi sono emozionato quando sono venuto da voi all’Università Statale a vedere un centinaio di ragazzi e di ragazze che ascoltavano non perché parlava il profeta, ma perché avevano voglia di capire. Noi ai luoghi affollati in cui si ascolta e si interagisce e ci si fa domande, ci siamo disabituati. In quei luoghi tu critichi, ma valorizzi l’altro e valorizzi anche te stesso in qualche maniera, quindi parti dal presupposto che vivi nella cella-casa in cui anche il tuo vicino non sai chi sia. Non sai quanto possa essere la più splendida delle persone o uno dei peggiori individui che esistono sulla faccia della terra, figurati quando la distanza sociale aumenta.
Adesso c’è questo termine terribile che viene utilizzato, “distanziamento sociale”. Che per una malattia si usi un termine così brutto come distanziamento sociale non è un caso, perché crei dei cerchi concentrici per cui lasci avvicinare delle persone, meno altre persone e ancora meno altre, in maniera tale da allontanarsi dall’idea di poter essere come loro.
 
(Continua…)
Redazione GD

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