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Qualche riflessione di testa su un tema di cuore

di Luca Cusimano

C’è un’auto che percorre un’autostrada, sul finire della primavera. Nelle colline che fiancheggiano la lingua di asfalto un uomo, al momento giusto, aziona un telecomando. Scoppia l’inferno in pochi secondi. Le auto vengono sbalzate dalla carreggiata che, frantumata, esplode, vittima dei cinquecento kili di tritolo piazzati sotto di essa.

È la strage di Capaci.

L’uomo che azionò il telecomando in quel Maggio del 1992 era Giovanni Brusca, boss di San Giuseppe Jato, soprannominato U Verru (in siciliano il verro, ovvero il porco) o Scannacristiani. Sono soprannomi che si è guadagnato in anni di ferocia efferata nei confronti delle proprie vittime. Oltre a essere uno degli artefici della morte di Falcone, della moglie e degli agenti della scorta è responsabile di oltre 150 omicidi. Un numero raggelante. Tra questi spicca l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, ucciso all’età di tredici anni e poi sciolto nell’acido. Bisognava reagire al pentimento di suo padre, Santino “Mezzanasca”. Sapeva troppo e bisognava convincerlo a non parlare, con ogni mezzo. Queste le motivazioni che Brusca ritenne valide per uccidere un ragazzino innocente. Questo era il livello di paura che un pentito instillava, e continua a instillare, negli uomini della mafia.

Bisogna però capire cosa sia un pentito a partire proprio dal termine, che sarebbe improprio per quanto accettato essendo di uso comune. Un mafioso che collabora con la giustizia non è necessariamente pentito di quello che ha fatto, semplicemente ha deciso di collaborare con lo Stato e di uscire dall’associazione mafiosa. Questo non ha nulla a che fare con il pentimento, con l’intimo convincimento di avere errato, condizione che tra l’altro sarebbe quanto meno complessa da definire e individuare.

Il giudice Falcone, passeggero dell’auto che Brusca fece saltare in aria, si batté ripetutamente a favore di una legislazione che fosse premiale nei confronti dei pentiti, con l’intento di creare una vera e propria emorragia di informazioni tramite quello che poi venne chiamato pentitismo, dando in mano alle istituzioni la migliore delle armi per combattere la mafia.

Ed è proprio in funzione di quella legge che Giovanni Brusca oggi è uscito dal carcere. Sicuramente sarà compito delle istituzioni vigilare affinché non riprenda a delinquere, ma questo non significa che sia sbagliato. Lo Scannacristiani ha pagato il suo debito con la giustizia, nonostante un percorso di collaborazione non particolarmente lineare, rispettando quelle che sono le leggi che oggi ci permettono di essere all’avanguardia nella lotta alla criminalità organizzata.

Sono comprensibili le reazioni di sconcerto all’idea che una persona che si è macchiata di crimini così gravi possa tornare libera, ma è nella natura stessa del nostro Stato, della nostra costituzione e della nostra cultura, a partire dagli scritti di Beccaria, che coloro che hanno sbagliato possano e debbano essere rieducati e reinseriti in società, trattando come uomini anche coloro che hanno trattato gli altri come bestie.

Se non ci fossero stati sconti di pena per i pentiti, oggi Brusca sarebbe in carcere, ma non lo sarebbero numerosissimi mafiosi che con le sue dichiarazioni sono stati arrestati, non sarebbero partiti numerosi processi, alcuni in corso tuttora, per portare luce su un periodo particolarmente buio della storia del nostro paese.

La giustizia non deve essere figlia dell’impulso, ma dettata da leggi razionali (lo dicevano persino nel Far West tarantiniano). Come quella voluta da Falcone riguardo i pentiti e il pentitismo, come ricordato anche da Maria Falcone “Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata.” Legge che rende vincitrice l’Italia, non la mafia, come sottolineato da Piero Grasso.

Redazione GD

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