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Genova, luglio 2001

Di Arianna Curti

La settimana prima del 19 luglio 2001 faceva caldo, molto. Ricordo perfettamente mia cugina, allora diciannovenne, ripetere più volte con gli amici “Genova”, “G8”. Io avevo 5 anni all’epoca. Genova distava 60km circa da casa, si vedeva nelle giornate di cielo limpido ma per me equivaleva all’America. “G8”, invece, pareva una parola in codice. Eppure, da quelle settimane, quell’evento ha avuto un peso sulla storia non solo nostra, ma di un Paese intero. Ricordo un’atmosfera particolare, frizzante in quelle settimane. Rispetto al solito binomio nonni e nipotini che caratterizzava la classica visuale quotidiana nel nostro paesello c’erano tantissimi tra ragazze e ragazzi che andavano e venivano dalla stazione verso Genova.

Il G8 di Genova ha fatto la storia per molti aspetti. È una vicenda umana di storie individuali e collettive, un fatto politico, la politica resa fatto.

Quella settimana quanto avvenuto a Genova ha determinato un cambiamento, nel modo di intendere i cortei e nella loro gestione, nella percezione dell’urgenza che una generazione stava sottolineando su alcuni temi oggi attualissimi.

I giovani presenti erano molti, arrivati da ogni parte di Italia e d’Europa per protestare, per dire la loro alla presenza dei grandi della Terra. Temi erano la globalizzazione, la tecnologia, i dati e la loro condivisione. 20 anni fa; eppure, è tutto ancora molto attuale. La globalizzazione capitalista che i “no global” si ponevano di contrastare oggi è materia con cui conviviamo, il divario tra un nutrito gruppo di non abbienti o poco abbienti e una piccola schiera di abbienti è sotto gli occhi di chiunque, la crisi climatica, la deforestazione, il furto di identità digitali, la condivisione senza freni dei dati sono tutti temi ampiamente discussi. Ormai la Storia però ha fatto il suo percorso, all’epoca invece chi scendeva in piazza pensava di poter mettere in guardia, fino addirittura a far sì che si cambiasse rotta.
Dalle testimonianze dei presenti, per me udibili attraverso il ricordo di mia cugina, in generale riscontrabili in qualunque articolo di giornale che ne parli, i ragazzi erano preparati perché sin da subito avevano capito che sarebbe stato un momento particolare, l’aria attorno a loro era pesante, particolarmente tesa. Non si aspettavano certo però le scene da “macelleria messicana” quale fu definita successivamente la situazione presso la scuola Diaz. (Qui per approfondire le ultime sulla vicenda processuale). In Italia, del resto, sembrava impossibile che potessero accadere episodi simili a situazioni sudamericane.

Mia cugina arrivò a Genova circa 5/6 giorni prima, per ritrovarsi con altri ragazze e ragazzi che arrivavano da ogni parte di Italia e d’Europa. Giravano per lo più in motorino cercando di familiarizzare con una città dove di base un evento di portata internazionale o un corteo hanno dei rischi di sicurezza. È facilissimo che un cittadino rimanga immerso in un corteo o che un manifestante venga travolto dalla carovana se gli spazi sono angusti; far sfilare per i carruggi, con i loro sali e scendi per farli ritrovare in improvvisi spiazzi larghi fu una scelta particolare che continuo a non comprendere anche alla luce dei resoconti di persone ben più autorevoli di me. Mia cugina ricorda che furono proprio irte barricate metalliche, create zone “rosse” all’interno delle quali far passare solo i cittadini. Una sorta di netta separazione tra dentro e fuori.

Oggi i cortei hanno delle caratteristiche organizzative differenti, anche per soccorrere una persona che si sente male. In uno spazio ristretto, senza la possibilità di muovere un braccio, come si potrebbero muovere i soccorsi?

Piazza Alimonda

Il 19 luglio era programmato il corteo. Mia cugina racconta di ragazzi che portavano i sandali, non persone abituate a cortei o manifestazioni con la presenza di sommosse. Il 20 però tutto cambia. Lei ricorda di aver respirato sin da subito un’aria pesante, un clima serale quasi da coprifuoco che diventa realtà. In piazza alcuni attuano forme di disobbedienza pacifica stando al suo ricordo. Anche Gabrielli, capo della polizia all’epoca dei fatti, parlando di Genova, nel 2017 disse chiaramente che “A Genova, un’infinità di persone, incolpevoli, subirono violenze fisiche e psicologiche che hanno segnato le loro vite  e se tutto questo, ancora oggi, è motivo di dolore, rancore, diffidenza, beh, allora vuol dire che la riflessione non è stata sufficiente. Né è stato sufficiente chiedere scusa a posteriori.” (Il Corriere della Sera).

E non è un caso che il 20 luglio è anche il giorno della morte di Carlo Giuliani, primo caso davvero eclatante che condizionerà gli eventi anche a seguire. Non mi soffermo sui fatti limitandomi ad allegare link per approfondire la decisione della Corte EDU sulla vicenda Giuliani, perché autonomamente ne si comprenda la portata. Mia cugina non arrivò al punto di Piazza Alimonda in cui avvenne la morte del ragazzo, perché tra fumogeni che lei ricorda anche urticanti e ragazzi in difficoltà da aiutare e soccorrere era molto lento procedere quindi era rimasta più indietro rispetto al luogo del fatto.

La Diaz e la nuova comunicazione

Il 21 luglio invece è il giorno della scuola Diaz. Anche qui utile leggere ad esempio, il racconto fatto da alcune persone presenti presso la Pertini che stava di fronte alla scuola Diaz.

Entrambi i luoghi, dai racconti di mia cugina, ospitavano ragazze, ragazzi o giornalisti, anche stranieri che avevano quel luogo come ricovero notturno nei loro sacchi a pelo. I reporter erano spesso ricollegabili a “Indymedia”, progetto di networking con l’obiettivo di creare un primo canale indipendente per dare una voce differente alle testate mainstream e permettendo di raccontare in diretta dalla strada. In un mondo, quello dell’epoca, senza la larga diffusione dei cellulari e senza quella narrazione alternativa, soprattutto personale, rispetto a quella della stampa. Di fatto è quello che poi a distanza di 20 anni oggi ognuno di noi può fare cioè documentare personalmente, una sorta di occhio individuale, ma allo stesso tempo collettivo attraverso la condivisione.

Le immagini girate durante e successivamente nella scuola hanno letteralmente fatto il giro del mondo, oggi sul web sono accessibili a tutti. Nelle scuole italiane spesso nel 2001 mancava praticamente ancora internet quindi il salto di prospettiva di questi ragazzi era davvero enorme e non si sapeva dove avrebbe portato quel tipo di comunicazione. Chi non era all’interno delle nuove e futuristiche dinamiche comunicative le guardava con sospetto, forse anche con timore.

Oggi però proprio grazie alle immagini, alle testimonianze, alle ricostruzioni, si guarda a Genova come a una delle pagine più buie della nostra democrazia.

Cosa rimane di Genova a chi c’era?

Ma cosa rimane a noi oggi di Genova, cosa rimane a chi ha manifestato? A me, giovane di oggi, resta il ricordo chiaro di quell’atmosfera di tensione respirata anche da me, allora bambina, resta invece la memoria indelebile di chi oggi racconta degli ideali per cui si è combattuto, della morte di qualcuno con cui si era condivisa una pagina della propria vita e della Storia del Paese. Perché a 20 anni ho deciso di parlarne? Per costruire un ponte tra allora e oggi, storia famigliare e nazionale così come si intrecciarono i due piani per tante famiglie dei presenti, poliziotti o manifestanti. Volontariamente ho narrato omettendo gran parte dei racconti che oralmente mia cugina ha fatto perché ogni episodio della Storia, ha dei vissuti personali, delle emozioni che penso vadano tenute private, volontariamente non ho narrato fatti, limitandomi ad allegare link, perché non ero presente e penso possano essere facilmente ricostruiti sia via web che tramite i processi.

Ho cercato solo di far leggere, nel modo più distaccato possibile, fatti che per molto tempo sono stati taciuti, forse è proprio questo che Genova ci lascia a distanza di anni cioè il senso vero e profondo di una democrazia da custodire con impegno e coraggio.

 

Genova, 20 anni dopo

Di Jacopo Marchesi

C’è un podcast di Internazionale che dice “Il g8 di Genova, vent’anni dopo”: cosa significano quei giorni di luglio per chi come me vent’anni fa non era ancora nato?

Essendo cresciuto in una famiglia di sinistra ho sempre sentito parlare di manifestazioni, cortei e scontri con le forze dell’ordine, sulle quali i miei hanno sempre avuto un’opinione molto ferma di condanna. Loro che a quel G8 sarebbero dovuti andare, ma per questioni lavorative non si erano potuti presentare, hanno sempre avuto una chiara idea su quello che è successa e me l’hanno trasmessa: “Gli sbirri hanno massacrato i manifestanti”

Crescendo e maturando il mio impegno politico ho iniziato ad informarmi su quei fatti (come dimenticare le discussioni infinite nei primi anni di liceo con il mio compagno di classe comunista su Giuliani) ma sempre in maniera molto distaccata. Infatti, riuscivo a capire i fatti nudi e crudi, c’erano state delle manifestazioni e la polizia le aveva represse in maniera fascista; ma non riuscivo ancora a comprendere la natura profonda di quel movimento No Global. D’altronde l’unico contatto che avevo avuto con quel movimento era stato nel 2015 durante l’Expo, quando dalla Francia sentivo nei tg che questi “black block no global” avevano devastato la città, con il ragazzo del video che dice “Le banche sono l’emblema, se non bruci le banche sei un coglione” che era diventato viralissimo e faceva venire un misto di tenerezza e risate, ma che in fondo aveva ragione. Con il passare degli anni avevo capito che quello era solo uno dei tantissimi mezzi di delegittimizzazione di un movimento.

Questa consapevolezza è nata con l’aumento del mio impegno politico attivo. Negli ultimi anni avevo iniziato a prendere parte alle manifestazioni con il collettivo della mia scuola, un momento spartiacque per la mia consapevolezza: ricordo la meraviglia per quel clima di festa e comunità con i manifestanti, ricordo come erano viste in maniera distorta dall’esterno, ed ho avuto le prime esperienze(indirette) con le forze dell’ordine.

Ho conosciuto la repressione delle forze dell’ordine e dell’autorità al No Salvini Day. La testa del corteo in cui ero venne bloccata e circondata dalle camionette delle celere, qualcuno era stato anche identificato. Ricordo per la prima volta la paura che qualcosa potesse andare storto e l’allontanamento velocissimo dalla manifestazione.

Un tipo di oppressione che ho sentito moltissimo durante l’ultimo anno, tra CoViD e le conseguenti azioni che avevamo intrapreso a scuola per manifestare affinché le lezioni ritornassero in presenza. Anche in quel caso ci sono stati diversi momenti di confronto (o di lotta) con le forze dell’ordine, la DIGOS, che venivano mandati a presidiare.

Ho potuto maturare una nuova visione sui fatti del G8 continuando ad informarmi e comprendere sulla base dell’esperienza e delle ragioni del movimento, sulla sua importanza e straordinarietà. Dall’altro lato ho provato un’enorme frustrazione per il modo in cui l’avevano represso e una sensazione di quasi malinconia per una mobilitazione enorme che non c’è più e che non ho mai potuto vivere.

In quest’ottica con il collettivo della mia scuola abbiamo deciso di fare una trasferta a Genova per il ventennale. Non saprei spiegare bene a parole il debito che sentivamo di avere nei confronti di quei ragazzi e quelle ragazze che due decenni fa erano nelle strade, quelle stesse strade che abbiamo ripercorso quasi in pellegrinaggio il 20 luglio: Via Tolemaide, Corso Torino, Piazza delle Americhe e, infine, Piazza Alimonda. Arrivati qua siamo entrati nel presidio dove si è subito sentita quell’intima connessione che provi nelle piazze quando sai di trovare intorno a te tutte persone a manifestare per i tuoi stessi motivi.

Era palpabile un sentimento misto di rabbia e festa: da un lato ancora il risentimento per la repressione di Stato; dall’altro vedevo le persone che vent’anni fa erano su queste strade che si incontravano dopo infinito tempo di lontananza e si ritrovavano nuovamente là.

La prima cosa che mi saltata all’occhio è stata la targa con il nome della Piazza coperta da una nuova targa: Piazza Carlo Giuliani – Ragazzo. Forse è questo il miglior epiteto che gli si può affidare. Come dicono anche molti suoi conoscenti, Carlo non è un eroe o un martire, è semplicemente un ragazzo che era a manifestare per un mondo migliore ed è stato assassinato. Carlo non si è messo in una situazione di pericolo, ci si è trovato per caso, ognuno di noi poteva trovarsi in quella stessa situazione, ognuno di noi poteva morire in quel modo. La rabbia monta per la situazione di non-straordinarietà di quello che è successo, per l’estrema banalità di quella morte. La rabbia monta per uno striscione appeso: “Puntavamo alla luna e avete indicato l’estintore”.

Come già avevo detto è la delegittimazione di quella morte così giovane, di un compagno assassinato, che si ritrova in moltissimi casi di abusi da parte di autorità e forze dell’ordine, da Cucchi ad Aldrovandi passando dal recentissimo caso di Youns El Bossettaoui. Ogni volta queste morti vengono giustificate, annullate, quando l’unica cosa che bisognerebbe fare sarebbe provare pietà per una vita umana spezzata.

Mentre eravamo lì, si susseguivano le canzoni e i discorsi dal palco, fino alle 17.27, quel maledetto momento in cui Carlo cadeva morto. A quel punto quasi per magia è calato il silenzio e migliaia di persone hanno alzato il pugno sinistro al cielo, fino a quando, nel completo silenzio che aveva avvolto quella marea umana è partito il sommesso coro: “Carlo/vive/e lotta insieme a noi, le nostre/idee/non moriranno mai”. Come spiegavo prima, questo è uno di quei momenti in cui senti una potentissima connessione con tutti gli altri compagni sconosciuti, riesci ad afferrare lontanamente il significato di quei giorni di luglio.

A quel punto abbiamo deciso di muoverci verso la Diaz. Muovendoci tra le tortuose vie di Genova ed i suoi saliscendi ci siamo fermati in un negozio di caramelle in cui la commessa ci ha raccontato che aveva sedici anni all’epoca ed era in strada con tutti gli altri: questa in città è una storia collettiva, tutti hanno il loro personale ricordo della vicenda.

Alla Diaz c’è stato un altro momento di profonda commozione. Era il 20 quindi non c’erano ancora manifestanti, tutti impegnati in piazza. La Diaz era bianca, spoglia, come si può vedere nei filmati dell’irruzione. A parte per una rosa all’ingresso non c’era nulla, non un segno di quello che è successo, non una targa o un ricordo di quei fatti. Questo è forse stato il momento più doloroso, capire che lo Stato e le istituzioni fino in fondo stanno ignorando il massacro che è avvenuto là.

Il cancello era aperto e quindi abbiamo visitato il cortile, e andando sul retro abbiamo visto la palestra dove molti manifestanti sono stati svegliati a colpi di manganelli, dove le presunte molotov erano state trovate e dove c’erano soprattutto le decine e decine di pozze di sangue.

Siamo tornati all’ingresso e siamo stati un po’ in silenzio a guardare quella scuola. Un senso di quotidianità completamente spiazzante, una scuola normalissima dove non c’è stata nessun’irruzione, nessuna macelleria messicana, nessun pestaggio, nessuna distruzione di un movimento.

Era stato lasciato un monito “don’t clean up this blood”. Quel monito era vero, il sangue è stato pulito e il ricordo è sbiadito. È nostro compito ricordare quei fatti per fare sì che una cosa del genere non capiti mai più, ma soprattutto dobbiamo raccogliere l’eredità che ci è stata lasciata.

Perché dopotutto avevate ragione voi.

Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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