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a cura di Samuele Franciolini, Elsa Piano

 

Abbiamo intervistato Davide Piacenza, giornalista che si occupa della società digitale in tutte le sue sfaccettature. Quest’anno è uscito per Einaudi il suo libro La correzione del mondo. Cancel culture, politicamente corretto e i nuovi fantasmi della società frammentata

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[GD:] Ciao Davide, innanzitutto grazie per aver accettato l’invito. La prima domanda non può che essere: i complotti e l’iconoclastia sono sempre esistiti nella storia, secondo te quale avvenimento storico ha reso la nostra pelle particolarmente sensibile e le nostre coscienze facilmente sanguinanti?

[DP:]  Io, in realtà, non credo che l’aspetto fondamentale di questo discorso sia un aumento di sensibilità. A dirla tutta, non sono neanche certo che siamo più sensibili sul totale. Quello che ho percepito io e che ho cercato di rendere [nel libro] è come una finta sensibilità falsa e strumentalizzata alimenta una sorta di teatrino che perpetua una struttura, e varie sovrastrutture, di indotto.

[ad esempio], ci sono i famosi influencer “inclusivi”  che non sono portavoce di una reale sensibilità secondo me. Parimenti, il dipinto di realtà che queste persone danno ad un’utenza più giovane finisce per influenzare il Bildungroman di questi. In sostanza, non credo ci sia un avvenimento storico identificabile come la radice di questo cambiamento, anche perché il cambiamento probabilmente non è tale. Certo, i più giovani hanno una sensibilità più acuita ma a monte sta un sistema comunicativo impazzito che fa della finta sensibilità, di una sensibilità di facciata, il suo principale veicolo.

[GD:] I social sono stati una causa diretta o un semplice amplificatore di questo processo?

[DP:] Io sono stato accusato di fare riduzionismo tecnologico, in un certo senso è così: credo che senza social non si verificherebbero una gran parte dei fenomeni di oggi. D’altronde, solo sui social si è formata la galassia di personaggi e “personaggetti”, si sono plasmati dei codici comunicativi e delle abitudini che portano a certe situazioni. I social sono assolutamente cause…

[GD:] Cause prime?

[DP:] Si, le definirei così

[GD:] Ti preoccupano di più gli esempi rari ma estremi di radicalizzazione (una scrittrice britannica che non può più scrivere un libro di ricette poiché bianca e l’assalto armato di una pizzeria di Washington) o quelli moderati e più di massa?

[DP:] Due cose su questo punto: da un lato ci sono una serie di ottusità radicali in entrambi i casi -pur al netto della differente pericolosità dei due casi-, dall’altra, è difficile capire cosa sia “moderato” qui, poiché le dinamiche portano ad esasperare tutto

[GD:] Nel libro, tu parli molto del “sottobosco” di Internet, ad esempio 4chan, una piattaforma dove l’estrema destra fa circolare meme nichilisti ed estremisti (omofobi, razzisti e complottisti), la domanda è, come è possibile che questi abbiano radicalizzato l’opinione pubblica?

[DP:] Io credo che questa forma di comunicazione, dotata di codici propri, vada a unire i gruppi sociali e crei una sottocultura dove date categorie sociali (tendenzialmente bianchi, sottoscolarizzati, con lavori a bassa paga) hanno trovato una valvola di sfogo. Rimandi ironici e divertenti finiscono per andare a plasmare dei gruppi di persone già di per sé chiuse ai cambiamenti della società, finendo per carburare le peggio cose

[GD:] Fino a qualche anno fa per parlare della polarizzazione online andava di moda riferirsi alla celebre osservazione di Umberto Eco (“una volta, un idiota sparava una scemenza al bar del paese con quattro suoi compagnoni e rimaneva lì. oggi quella scemenza riceve migliaia di like, commenti e condivisioni”). L’idea di fondo era quella che la violenza online (“il famoso leone da tastiera”) rimanesse online e che il mondo reale non ne fosse sostanzialmente toccato, gli eventi degli ultimi anni (su cui spiccano i fatti di Capitol Hill) hanno dimostrato il contrario. Secondo te i governi sono stati poco previdenti sulla polarizzazione online?

[DP:] Assolutamente sì, questi problemi sono stati grandemente sottovalutati. Ovviamente, non solo per incuria ma anche per interesse. Sopra tutti sta senza dubbio il governo americano che, trovandosi con aziende multimiliardarie lanciate alla conquista del mondo, ha pensato che queste fossero non too big to fail ma addirittura too big to regulate in quanto esercitano una funzione di gatekeeping dell’informazione mondiale. Sono i lati oscuri di ciò che succede, il lato peggiore dei loro contraccolpi sulla società sono noti da tempo.

Nel libro cito una serie di persone della Silicon Valley che hanno contribuito allo sviluppo delle piattaforme e oggi  se ne sono pentiti. L’ingegnere che ha inventato il tasto “retweet” ha affermato che la sua invenzione “è stata come dare una pistola carica ad un bambino di quattro anni”. Similmente, il 6 gennaio, il message board interno di Facebook si popola di messaggi che affermano “questo fuoco noi lo abbiamo alimentato per tanto tempo”.

Per dire cose? Che gli stessi social, a livello dirigenziale, hanno chiuso consciamente un occhio sulla questione per lungo tempo. Dunque, tutte cose note, tutte cose che erano evitabili  se ci fosse stata la famosa volontà politica.

[GD:] Nel secondo capitolo affermi che dobbiamo iniziare a parlare di cancel culture in maniera strutturata e non ideologica. Come è noto in questi anni la scuola e l’università sono sempre più chiusi in sé, ognuno si occupa del suo piccolo recinto e, quando non lo fa, spesso è un personaggio gigionesco dettato dalle necessità mediatiche del momento, (ad esempio un virologo o un esperto di politica estera). Credi che questa reticenza dell’istruzione ad interrogarsi sulla cultura -che pur insegna- sia uno dei fattori determinati della crisi culturale in cui ci troviamo?

[DP:] Sicuramente c’è una questione di “visione a compartimenti stagni”, la tendenza a chiudere i settori accademici porta alla perdita di radicamento sociale.

Ad esempio, il concetto di “appropriazione culturale” ha un’origine accademica, dove è sorto per indicare (ad esempio) comportamenti profondamente tirannici e scorretti da parte di alcune multinazionali che si appropriavano di culture locali in dati luoghi senza riconoscere la cosa a chi è portatore autentica di quella cultura. Questa origine sensata e precisa è impazzita nel mondo di oggi, dove la traduttrice bianca non può tradurre la poetessa nera o i maschi bianchi non possono farsi i dreadlock.

Questo, è un grosso problema, un problema che emerge con forza nelle università del mondo anglofono ma piano piano filtra anche da noi. In generale, c’è una reticenza ad interrogarsi e trovare un sinonimo al termine “cancel culture”, termine ombrello sotto cui ormai stanno cose diversissime. Da destra l’etichetta viene usata come il famoso “martello per cui tutto è chiodo”, da sinistra diventa una sorta di “no” aprioristico che porta a non affrontare date questioni poiché percepite come problematiche.

[GD]: Oggi dire “sono offeso” è un’arma politica al punto che i conservatori definiscono snowflakes i loro avversari. Secondo te fino a che livello l’offesa è reale e oltre che punto diventa un escamotage per imporre la propria volontà ed evadere il dibattito democratico?

[DP]: L’offesa in quanto tale è spesso soggettiva, questa è la sua caratteristica. Per questa sua natura soggettiva, è spesso difficile decidere come essa possa essere un vero metro di giudizio.

Ma voglio essere io a decidere cosa mi offende! Prendiamo il caso recente di Roal Dahl, l’editore decide che serve il sensitivity reader per riscrivere i libri, senza che nessuno l’abbia chiesto: si tratta di un’arma politica oltre che commerciale.

Generalmente, si struttura una sorta di “sacra scrittura intoccabile” in questo modo stretto e sacerdotale [manicheo] di guardare la realtà come se questa fosse radicalmente spaccata in offensori-offesi e vittime-carnefici, andando sempre di più verso una situazione in cui qualsiasi tentativi di non vedere le cose in questa maniera diventa una stortura e oggetto di una “rieducazione”.

[GD:] La società è sempre più polarizzata ed atomizzata, le persone vivono chiuse in bolle di opinioni ristrette in cui la radicalizzazione è facile. Prima ricordavi le responsabilità della politica su questo punto, la domanda è: secondo te, i partiti per arginare questa progressiva frammentazione sociale?

Sicuramente sì! Anche se a questo punto non sarà facile, siamo ad un punto avanzato della discesa della valanga. Ma sicuramente i partiti più grandi e partecipati possono provare a dire la loro per regolamentare i social, quanto meno per organizzare un’educazione e una volontà di riorientamento culturale del cittadino nei confronti dei social.

 

Ciò sarebbe necessario per invertire il trend, affermato negli ultimi anni, di politici che venivano magnificati per la loro capacità di stare sui social e di comunicare in maniera immediata e brillante acchiappando molti like (fino al celebre caso Gasparri). Io credo che un giorno arriveremo a considerare questa celebrazione per ciò che era, un’apologia molto stupida e molto inconsapevole di macchine che, oltre a generare violenza e affini, distruggono la politica. La politica non può essere fatta con i tweet, anche se per anni ci hanno detto il contrario. Poiché fare politica con i tweet significa che vince chi è bravo a fare i tweet, che tendenzialmente non sarà il più interessato a fare il bene della cosa pubblica.

Quindi sì, direi che Italia [i partiti] possono agire in senso educativo e culturale. Per fare ciò bisogna partire da quelle particelle che hanno ancora presa sociale e i partiti fanno ancora parte di questo orizzonte.

[GD: tweet di Salvini a parte?]

[DP:] [ride] tweet di Salvini a parte

[GD:] Secondo te il politicamente corretto è realmente qualcosa di “progressista” o si tratta di una costruzione ideologica radicale del liberalismo che vuole vietarmi di criticare le forme di vita altrui?

Se la direzione del politicamente corretto è quella di includere chi finora è stato escluso allora una qualsiasi persona che si dice “di sinistra” non può sottrarsi da ciò. Dopo di che, il problema è su che cosa definiamo “politicamente corretto”, la definizione è grandemente controversa e ha degli echi di appropriazione della destra (anche radicale).

Se cerchiamo di darne una definizione standard, che comprende anche i suoi aspetti deteriori di cui abbiamo parlato fin qui, dobbiamo dire che c’è anche l’aspetto che definite nella seconda parte della domanda.

Spesso, i cosiddetti “woke” -specialmente nel mondo del giornalismo, degli opinionisti e di persone che si mettono in mostra sui social- vedo un liberalismo radicalizzato in maniera, peraltro, molto inconsapevole. Si finisce per far passare l’idea che non ci si può esprimere sulle vite altrui

Se noi trattiamo il diverso radicalmente come “il diverso” finiamo per chiuderci in bolle isolate.

 [GD:] Nelle conclusioni del libro ci racconti che l’abbattimento della statua di un mercante schiavista di Bristol da parte di quattro attivisti è stato approvato dal 61% della popolazione locale, di contro l’ipotetica rimozione della statua di Montanelli in Porta Venezia viene negata con 9 volte i “no” rispetto ai “sì”. Secondo te sono auspicabili e possibili dei referendum popolari che decidano della sorte delle statue nelle nostre città?

Si, penso che dei referendum debbano essere auspicabili. Alla base deve esserci una volontà politica e sociale di discutere dei nostri simboli. Questa non è più una questione secondaria, i fenomeni di cui abbiamo parlato sono certamente nuovi in molte modalità e inediti sotto diversi aspetti, ma certe questioni, ad esempio la lotta sulla statue, hanno radice che affondano profondamente in antichità (a Roma, ad esempio, era un problema ricorrente).

La questione c’è ed è rilevante, se si riduce tutto a “quelli vogliono abbattere” contro “quelli vogliono distruggere tutti i nostri simboli” e ad uno scontro fra “i paladini della cancel culture” e “i paladini dell’anti wokeism” non si va da nessuna parte. Le divisioni non sono mai bianco/nero, buono/cattivo. Un conto è abbattere la statua di uno schiavista, un conto è la statua di un giornalista, nel libro io faccio questi due esempi per auspicare un confronto che vada oltre qualche semplice shitstorm su Twitter, dove ci facciamo forti di quanto siamo o non siamo radicali, arrabbiati e indignati. Sono questioni sociali importanti che meritano, non tanto, più rilievo ma un rilievo migliore di quanto gli viene dato.

 

 

 

 

Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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