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di Amalia S. Di Bari

Lungi dall’avanzare una proposta di riforma del sistema penale, esprimo le mie umili opinioni riguardo le sue criticità e la sua inadeguatezza nell’occuparsi di femminicidi, inadeguatezza data da alcuni strumenti sommari, che rischiano di minare all’amministrazione di una giustizia equa, affidabile e condivisibile, come riscontrato in recenti avvenimenti che hanno scosso l’opinione pubblica.

 

Il reato di femminicidio

Senza ignorare l’elefante nella stanza, addentriamoci nel nuovo reato approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 7 marzo 2025:

 Articolo 577-bis. – (Femminicidio)- Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo.

Se da una parte una certa fetta di società ha abboccato all’amo delle forze di maggioranza, dall’altra parte non mancano le aspre critiche dei magistrati, dotate, credo, di maggiore autorevolezza.

Si è sottolineato come la parola ‘donna’ non sia mai comparsa prima d’ora in nessuna fattispecie penale. E come mai questo è un male? Lo è perché il bene giuridico tutelato non dovrebbe essere ‘il bene donna’ o ‘il bene uomo’, ma il bene del diritto inalienabile alla vita. Si favoreggia, così, una indiretta identificazione della donna come un bene, una cosa fragile che necessita di protezione, ottenendo il risultato (voluto? non voluto?) di cristallizzare la polarità del binarismo e la disparità di genere, senza minimamente tentare di decostruirla. È come se già in partenza il legislatore ammettesse che esiste un problema, ma non si adoperasse per risolverlo, o almeno, non tentasse di porre una soluzione attraverso interventi significativi, perché preferisce comminare pene a costo zero con carta e penna.

Si tratta inoltre di un processo di vittimizzazione ulteriore. Donne, come vi sentite a essere non solo trattate, ma assimilate tramite il linguaggio alla stregua di bamboline che necessitano di protezione? Ci troviamo di fronte a un meccanismo che contribuisce a costruire l’immagine nel pensiero comune di una donna come passiva, quando sarebbe auspicabile che il messaggio da diffondere sia quello di una persona dotata di autonomia, emancipata e capace di provvedere a sé stessa.

«La legge è uguale per tutti» è la formula iscritta in qualunque aula dei tribunali italiani. Allora evidentemente l’articolo 3 della Costituzione – che vuole che casi uguali siano trattati in modo eguale e che i casi diversi siano trattati in modo diverso – è stato senza indugio calpestato: parlando in termini di fattispecie astratte, senza addentrarci negli infiniti casi concreti prospettabili, se un uomo uccide una donna trascorrerà il resto della sua vita al fresco, mentre se invertissimo agente e persona offesa potremmo prospettare 21 anni di reclusione (ex art. 575 c.p.).

Non è oltremodo certa la compatibilità del reato di femminicidio con il principio di determinatezza, che ci parla della necessità di provare in processo gli elementi del fatto di reato, agganciandosi ai vincoli di realtà e di scienza. Un piccolo esempio. L’articolo 603 rubricato “plagio” enuncia: «Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni». La Corte costituzionale, con la sentenza 96/1981, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questo articolo, dal momento che non è possibile dimostrare in giudizio l’esistenza di uno stato di soggezione. Del pari, come farebbe un giudice ad accertare oltre ogni ragionevole dubbio che un uomo ha ucciso una donna per motivi di discriminazione o di odio, vista la loro caratteristica intrinseca di interiorità, e non, invento, per ripicca perché gli ha rubato la macchina? Non è possibile penetrare in tal modo nella mente del reo, il quale, per evitare l’ergastolo, farebbe di tutto per negare suddetto movente. La norma risulta troppo vaga e imprecisa.

Lo storico del diritto Rudolf von Jhering diceva che “La storia della pena è una continua abolizione”. Si è dimenticato di aggiungere “in ogni stato che non residui di forme di inciviltà”. L’inasprimento delle pene non ha mai funto da deterrente in qualunque forma di reato, né assume una funzione educativo-pedagogica: non si vede come chi non ha già interiorizzato il rispetto della donna come titolare di eguali diritti a quelli dell’uomo, lo possa imparare leggendo la norma; mostrare il pugno di ferro non serve a nulla, perché punire ex post la commissione di un delitto già verificatosi non farà tornare indietro dall’aldilà la persona offesa. Non sarà troppo tardi, invece, se verranno messe in atto politiche sociali che stanno al di fuori del diritto penale, riconoscendo una volta per tutte che le donne uccise dagli uomini rappresentano un fenomeno strutturale e radicato, che discendono da un germe ben preciso: il patriarcato. Il trattamento sanzionatorio più aspro è tuttavia preferito all’efficacia preventiva, che denota in tal modo una deresponsabilizzazione delle forze politiche e delle istituzioni, a scapito di magistrati che si trovano ad affrontare un meccanismo della macchina giudiziaria sempre più ingigantito, lento e lontano dagli standard europei (si veda, da ultimo, il Rapporto 2021 della Commissione europea per l’efficacia della giustizia), senza addentrarci poi nella questione della sovrappopolazione carceraria del nostro Paese (al gennaio 2020 il tasso di sovraffollamento superava il 120%). Non mi risulta, d’altronde, che dal 7 marzo alla metà di giugno i femminicidi siano né mancati né diminuiti, a dimostrazione che la norma non sta avendo alcun successo nell’ammonire uomini che uccidono donne.

Non è necessario un reato ad hoc quando già sono previste circostanze aggravanti, quali l’aver agito per motivi abietti o futili, o aver arrecato offese nei confronti di membri del proprio nucleo familiare, contro congiunti, ex congiunti, o chi è o è stato legato in passato da una relazione affettiva con la persona offesa. Difetta, a mio avviso, solamente un accorgimento da fare su quegli uomini che non sono né stati sposati né fidanzati con la vittima; notiamo come nei casi concreati la libertà e l’indipendenza delle donne venga annientata non solo da coloro che hanno intrattenuto con loro una relazione sentimentale, ma persino da chi ha avuto una sporadica frequentazione. Pensiamo all’omicidio di Stefano Argentino a danno della compagna di università Sara Campanella: i due non avevano una relazione, ma lui la tormentava da due anni, come dimostrato dalle indagini su cellulari e computer.

Il nostro ordinamento giuridico è ispirato dalla rieducazione del condannato; difatti l’ergastolo è da tempo oggetto di seri dubbi di legittimità costituzionale. Se la rieducazione deve intendersi come offerta di aiuto al reo perché possa aumentare le sue chances di vivere nella società rispettandone le regole, questa idea non si concilia con una pena che comporta una definitiva espulsione dalla società: stiamo parlando di una sorta di morte civile. Il problema della legittimità costituzionale si argina tramite l’istituto della libertà condizionale, che premia la buona condotta del condannato con un’uscita anticipata dagli istituti penitenziari, senza però che ciò elimini in toto lo scetticismo della pena perpetua dell’ergastolo.

Infine, è bene ricordare che il genere femminile comprende anche donne transessuali, che però esulano da qualsiasi tutela normativa, proprio quando ne avrebbero bisogno, perché subiscono tassi di violenza elevatissimi. Eppure rimangono invisibili agli occhi di questa costruzione giuridica, rimanendo in una zona d’ombra difficilmente quantificabile in dati. Se l’obiettivo fosse riconoscere la matrice discriminatoria alla base di queste condotte, sarebbe più coerente e armonico continuare a prevedere l’aggravante per motivi abietti (un movente turpe, ignobile, spregevole al punto tale da suscitare una diffusa ripugnanza) o futili (quando il movente appare del tutto sproporzionato rispetto al reato al quale ha dato origine), piuttosto che un reato autonomo che dia vita a irragionevoli disparità di trattamento sesso-genere.


La condanna di Turetta

Passiamo ora alla sentenza di primo grado che ha condannato Filippo Turetta per l’omicidio e il sequestro di Giulia Cecchettin, analizzandone in particolare le motivazioni sulle circostanze aggravanti e sul reato di stalking. Mentre è stato inserito l’aggravante della premeditazione (era presente sul cellulare una lista nell’app di note che elencava tutti gli oggetti necessari al sequestro e all’omicidio), è rimasto escluso l’aggravante di aver agito con sevizia e crudeltà, così come non è stato integrato il reato di atti persecutori, il cosiddetto stalking.

Analizzando la prima aggravante non concessa, va detto che la definizione normativa di sevizia e crudeltà non è quella del linguaggio comune. Agisce con sevizia, infatti, colui che adotta sofferenze fisiche non necessarie per la commissione del reato. Agisce con crudeltà, invece, colui che infligge alla vittima o a un terzo (si pensi a una persona legata da sentimenti affettivi che tema per la vittima) una sofferenza morale, rivelatrice di mancanza di umanità, non necessaria per la commissione del reato. È difficile digerire il fatto che le 75 coltellate, seppur efferatissime, non stiano a indicare né sevizia né crudeltà, ma una sostanziale inesperienza di Turetta. Ciononostante, il dolore fisico inimmaginabile è stato procurato, come è stata procurata una sofferenza psicologica nel momento in cui Cecchettin si è vista sequestrata, tacitata, percossa ben prima della causazione della sua morte; proprio in questi terribili momenti, Cecchettin si era già prefigurata fortemente la sua fine, senza via di scampo.

Neanche il reato di stalking è stato riconosciuto; capiamo perché con la lettura della sua norma penale:

Articolo 612-bis – (Atti Persecutori) – Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

La formula chiave consiste qui in “stato di ansia e di paura” (che la Corte Costituzionale ha ritenuto costituzionalmente legittima rispetto al principio di determinatezza precedentemente illustrato, trattandosi di “comportamenti effettivamente riscontrabili nella realtà”). Ebbene, le innumerevoli chat tra i due, Turetta e Cecchettin, oltre alle testimonianze fornite dai familiari di quest’ultima, ammettono che Cecchettin non aveva paura per sé stessa, ma aveva paura per lui! Turetta, così come molti altri, aveva messo in gioco un meccanismo di ricatto emotivo del suicidio, la narrazione di un uomo che pur di trovare un appiglio di controllo sulla vita di una donna, minacciava di togliersi la vita qualora lei avesse posto fine alla relazione. In poche parole, limitando e offendendo la libera scelta di Cecchettin che, temendo per l’incolumità di lui, ha acconsentito alle sue richieste per non dover vivere con un senso di colpa enorme.

In conclusione, bisognerebbe ripensare come il diritto penale e la politica affrontano le dinamiche di omicidi commessi a danno delle donne in modo critico, logico ed efficace, prediligendo le tecniche preventive di educazione sessuale e affettività alle tecniche sanzionatorie, investendo fondi capaci di sopprimere alla carenza di personale, strumenti e organizzazione nei centri anti violenza, oltre a riconoscere il modo in cui il potere maschile si articola in suddette dinamiche, e proclamare a gran voce che è proprio il patriarcato che sta alla base della totalità dei fatti commessi.

Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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