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Ci sono persone che rischiano di essere invisibili, persone che affrontano un viaggio in cui perdono la propria identità, che spesso non hanno un nome, che muoiono nel tentativo di raggiungere l’Europa. Per questo è importante parlarne, ascoltare le loro storie, non lasciarli soli.
 
Ed è quello che hanno provato a fare gli scrittori Edoardo Albinati e Francesca d’Aloja, partiti in una missione in Niger organizzata dall’Alto Commissariato per i rifugiati dell’Onu dall’11 al 19 dicembre 2017, raccontando la loro esperienza nel libro ‹‹Otto giorni in Niger››.
 
Edoardo nella prima pagina del testo ammette senza vergogna ‹‹sì, confesso di essere uno di quelli che fino a due mesi fa non distingueva il Niger dalla Nigeria›› e in effetti non sempre ci è chiara la geografia di quel vasto continente che è l’Africa, figuriamoci la sua politica e i suoi rivolgimenti interni.
 
Dunque, perché è importante il Niger?
Il Niger è un paese senza sbocco sul mare, circondato da quelli che sono considerati i Paesi più “caldi” dell’Africa occidentale e del Sahel, cioè la fascia subsahariana che si estende dall’Atlantico al mar Rosso, a sud del deserto e a nord della savana. A ovest ci sono il Mali e il Burkina Faso, a sud Benin e Nigeria, a est il Ciad e a nord la Libia e l’Algeria.
 
Da qui non passano solo persone, migranti e rifugiati, ma anche armi, capitali occidentali e cinesi, funzionari, militari e uranio. Molte le manifestazioni all’interno del paese, principalmente studentesche, che chiedono più spese per istruzione e sanità e meno per la sicurezza – anche se sarebbe più appropriato chiamarla repressione.
 
Europa e Usa spediscono soldi in Africa che vengono utilizzati soprattutto per alimentare misure repressive, mentre poco arriva alle popolazioni locali che ne hanno veramente bisogno: di conseguenza ai disperati, per sopravvivere, non rimane che arruolarsi nella Jihad. Alla fine si genera un paradosso perturbante: quello che doveva essere denaro investito per la sicurezza di fatto aumenta insicurezza e instabilità.
 
Il Niger è uno tra i paesi più poveri al mondo, l’impressione di Albinati è che i suoi abitanti siano persone miti, che si accontentano di poco. La maggior parte di loro quando emigra lo fa per andare a cercare lavoro in Centrafrica, non in Europa.
 
La presenza di rifugiati in Niger è molto consistente: a ovest, vicino a Tillaberey, ci sono circa 55.000 rifugiati del Mali, a est, verso Diffa 110.000 della Nigeria, più altri centomila nigerini sfollati all’interno.
 
Nei centri servizi rifugiati, come il Guichet Unique visitato dagli autori, i rifugiati ricevono assistenza sanitaria, legale, educativa e hanno la possibilità di denunciare maltrattamenti potendo contare su riservatezza e protezione. Arrivano all’incirca cinque famiglie al giorno, dal Mali, dal Togo, dal Camerun, dalla Costa d’Avorio.
 
Molti si spingono fino ad Agadez, nel cuore del Niger, con l’intento di andare verso la Libia, ma poi si rendono conto dei rischi e preferiscono tornare indietro alla capitale Niamey e richiedere asilo. Queste persone fuggono da catastrofi, calamità naturali, saccheggi, incendi e dai loro racconti ci si rende conto di quanto sia difficile distinguere i migranti economici da chi fugge a causa di guerre o pulizie etniche o religiose.
 
‹‹Se il tuo bestiame muore di sete, o se ti viene requisito dai jihadisti, il risultato alla fine è il medesimo: devi andartene. Partire prima di morire››.
 
Scrive Edoardo: ‹‹Ho letto una statistica che sfata il mito dell’invasione usato in Europa per fomentare gli elettori: in realtà solo il 6% dei migranti lascia il continente, la stragrande maggioranza si muove tra gli stati africani››.
 
Per Francesca ‹‹attesa›› è una parola che sta alla base dell’essenza di rifugiato. Imprigionato in una sorta di limbo, di non-luogo, è costretto a lasciare la propria identità in attesa di conquistarne un’altra che gli permetta di fare una vita nuova, diversa, si spera migliore. È in totale balìa di decisioni altrui.
 
In una ‹‹case de passage››, una residenza di transito, chiedono se qualcuno ha voglia di raccontare la propria storia. Molti non ne hanno, ma un paio accettano. Sono storie tutte molto simili, anni e anni di continui sballottamenti tra i vari paesi africani, incarcerazioni, sfruttamenti.
 
Emerge un fatto: in Libia la maggior parte dei migranti finisce in prigione. Le condizioni sono molto dure, celle che ospitano dalle trenta alle cinquanta persone, senza acqua né cibo e nessuna possibilità di uscire. Per fortuna in alcuni casi questo inferno finisce con la liberazione da parte dell’Alto Commissariato che riesce a evacuarli.
 
La vera domanda per Edoardo è ‹‹com’è possibile che il Niger sia così accogliente, mentre certi paesi europei fanno storie per prendersi mille rifugiati?››, la risposta di un operatore umanitario è stata ‹‹semplice: qui l’opinione pubblica non esiste. Dunque i politici non sono sottoposti alla pressione continua, le decisioni si possono prendere senza preoccuparsi dei sondaggi, cioè, di perdere consensi alla minima apertura, non esistendo l’isteria dei social network, in Niger c’è meno paura, sia tra la gente, sia in chi la governa››.
 
In più in Niger non c’è la distinzione tra stranieri e non, le popolazioni degli altri paesi sono più o meno le stesse, parlano tutti la stessa lingua, il kanuri. La frontiera è più che altro un fatto amministrativo. Il terzo giorno della missione attendono un aereo con a bordo persone precedentemente incarcerate in Libia, ma a causa della mancanza di un documento non potrà decollare. Nel frattempo prendono un volo della World Food Program per Agadez.
 
Agadez si trova a nord, ai confini con il deserto, ed è un punto nevralgico per i flussi migratori, un passaggio strategico verso la Libia. Qui, infatti, è sorto un grosso commercio legato al traffico di migranti, gestito dai passeurs. Nel 2015 il governo ha reso illegale questa pratica e ha promesso loro denaro per aprire un’attività alternativa, ma i soldi non sono arrivati e ora si ritrovano disoccupati.
 
«La migrazione, insieme al turismo, era il pilastro dell’economia di Agadez» dice un ex trafficante. I prezzi per il trasporto erano di 120.000 franchi, circa 180 euro, a migrante. I bambini non pagavano. In un viaggio si riuscivano a caricare all’incirca 25 persone.
 
Il traffico non si è interrotto, ma è diventato più pericoloso nel tentativo di eludere i controlli.
 
Per raggiungere la Libia ci vogliono quattro giorni, se il mezzo si guasta è la fine, ma nonostante questi rischi, uomini, donne e bambini continuano a fuggire incuranti del pericolo.
 
‹‹Non è possibile ostacolare l’immigrazione e pretendere di aver a cuore l’incolumità di chi la intraprende››, un altro paradosso su cui riflette Francesca.
 
Quando finalmente arriva l’aereo che stavano aspettando, il quadro che appare ai loro occhi è commovente. Le persone liberate dalle prigioni libiche sono molto fragili, alcune hanno crisi di panico, non sempre vogliono parlare, le ragazze temono di aver contratto l’AIDS o di essere rimaste incinte a causa degli stupri.
 
‹‹Le prigioni libiche sono quei luoghi di detenzione, spesso infernali, in cui gli accordi italo-libici costringono i migranti in modo che non sbarchino più sulle nostre coste››.
 
A un tratto arriva una dichiarazione in cui Gentiloni afferma che a breve saranno schierate truppe italiane in Niger. Segno che ci si è resi conto dell’importanza di questo Paese. Il governatore di Agadez ha dichiarato che bisogna trasformare il Paese da un ‹‹corridoio verso l’inferno della Libia›› a ‹‹un territorio di accoglienza e integrazione››, ma Edoardo si chiede se questo obiettivo possa essere raggiunto solo attraverso l’impiego dei soldati.
 
Il giorno seguente partono per andare a ovest, verso il confine con il Mali e il Burkina Faso dove il livello di sicurezza è 4 su 5. Negli ultimi mesi sono stati uccisi in imboscate quattordici militi nigerini e quattro addestratori americani. Nella zona sono presenti banditi e jihadisti, ma la loro distinzione è irrilevante agli occhi della popolazione soggiogata.
 
È importante sottolineare che, per evitare tensioni e malcontento, anche gli indigeni sono beneficiari degli aiuti umanitari. Presso Tabareybarey in una ZAR si trovano circa 11.000 rifugiati maliani. La Zone Accueil Réfugiés è un campo più ampio dove le famiglie di rifugiati possono portare anche il proprio bestiame.
 
All’arrivo i rifugiati devono essere identificati e vengono schedati grazie a un sistema biometrico, che registra impronte digitali e oculari. Dai dati raccolti emerge che la maggior parte è analfabeta. Il desiderio di molti è tornare a essere indipendenti, a svolgere le proprie attività.
 
Nel libro viene riportata la testimonianza del viaggio di una migrante, una storia simbolo che non è difficile immaginare, purtroppo, simile a quella di tante altre ragazze. Viaggi attraverso il deserto che durano anche un mese, ti vengono chiesti dei soldi, ma non ti assicurano nulla, poi ti arresta la polizia, arriva qualcuno che la paga e ti promette libertà, ma tu in cambio gli devi dare altri soldi, altrimenti se sei donna vieni stuprata, se sei uomo ti picchiano fino anche ad ucciderti.
 
Dobbiamo ricordarci che molte più persone muoiono attraversando il deserto rispetto a quante ne muoiono in mare. Muoiono per malattie, maltrattamenti, di fame, di sete. Ai loro aguzzini non interessa minimamente della loro vita. Sono sadici. Le torturano e le lasciano morire come se niente fosse. Alcune vengono anche vendute come schiavi.
 
Noi, se riteniamo di essere Paesi democratici, persone che credono nei valori della Democrazia, non possiamo tollerare tutto questo.
 
L’Italia per far rientrare la “minaccia immigrazione” e limitare le morti in mare si è appoggiata alla Guardia Costiera libica, ma ad oggi non abbiamo ancora ben chiaro chi siano queste persone. Ricordiamoci che la Libia da dopo il colpo di Stato non ha un governo per così dire legittimo, il potere di Serraj non si estende oltre Tripoli, ed è per questo che è difficile pensare di fare accordi con questo Paese.
 
Le morti in mare non sono diminuite, si sono solo spostate.
 
Per fare la lotta ai trafficanti bisognerebbe eliminare il motivo per cui le persone si rivolgono a loro, bisognerebbe creare dei canali legali di immigrazione. Prima della Bossi-Fini non c’era il problema degli sbarchi, è con la sua introduzione e la conseguente chiusura all’immigrazione legale che sono aumentati.
 
Non abbiamo idea di cosa abbiano visto gli occhi di questi migranti.
Dovremmo solo avere un po’ più di rispetto.
 
Dovremmo solo tornare ad essere umani.
 
Lorena Leuzzi
Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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