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di Pompeo Borlone

 

Tunisia, 17 dicembre 2010. Il giovane Mohamed Bouazizi si diede fuoco davanti all’ufficio del governatore di Sidi Bouzid, una cittadina rurale. Questo atto, simbolo della rimostranza nei confronti della disoccupazione e della corruzione dilaganti nel governo venticinquennale del presidente tunisino Zine El-Abidine Ben Ali, fu l’inizio di quella serie di proteste che hanno sconvolto il mondo arabo a cavallo tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 e che i giornalisti hanno denominato “Primavera Araba”. Tali sommovimenti hanno portato grandi cambiamenti nell’area africana e mediorientale del bacino mediterraneo, portando alle dimissioni del presidente tunisino Ben Ali, di quello egiziano Hosni Mubarak e di quello yemenita Ali Abdullah Saleh.

I successi ottenuti dalle sollevazioni popolari in Tunisia e in Egitto incitarono gli oppositori del governo siriano a scendere in piazza per chiedere una democratizzazione dello Stato. Il Governo di Assad, però, del tutto determinato a non cedere il potere, decise di reprimere nel sangue le varie manifestazioni. Il divide et impera attuato da Damasco fece sì che l’opposizione si fratturò fino ad identificare come nemico non solo il governo ma persino altri gruppi che a quello stesso governo si opponevano, facilitando l’insorgere di gruppi radicalizzati che hanno formato allo Stato Islamico.

Sorte del tutto simile ha riguardato la Libia, dove la morte di Mu’ammar Gheddafi ha segnato il momento in cui non è stato più possibile tenere assieme le varie tribù che formano il tessuto dello Stato con la conseguenza di una guerra civile in cui, anche in questo caso, sono comparsi gruppi radicalizzati.

In altre Nazioni, invece, si è passati da un regime autoritario all’altro: ne fa da esempio l’Egitto, che da Mubarak è passato a Modi, leader della Fratellanza Mussulmana democraticamente eletto ma che è stato sostituito da al-Sisi nel momento in cui cominciò a modificare la Costituzione dello Stato in senso islamista.

Con la salita al potere di al-Sisi, la situazione dei diritti umani al Cairo si è profondamente deteriorata e ne abbiamo notizia per le vicende ben note di Giulio Regeni e di Patrick Zaki ne sono un buon esempio.

 

Successo della Primavera Araba?

Tuttavia, spesso ci si riferisce alla Tunisia come un successo della Primavera Araba, l’unica nazione coinvolta ad avviarsi e a riuscire in una transizione democratica, con la pubblicazione di una nuova costituzione, con i media considerati liberi e la possibilità di protestare. A dieci anni dal gesto rivoluzionario di Mohamed Bouazizi, ha senso parlare di “successo?”

Nonostante la sua crescita democratica, la Tunisia versa in una grave crisi economica, una crisi che è solo peggiorata a seguito dell’arrivo della pandemia del Covid-19.

A dicembre scorso i giovani tunisini hanno cominciato a scendere in strada per protestare: si lotta perché si possano avere condizioni di vita migliori e per un futuro più promettente, ora ostacolato dall’indebitamento dello Stato berbero, dalla grave disoccupazione, la quale ha superato i 15 punti percentuale, mentre nel 2011, alla vigilia della morte di Mohamed Bouazizi, stava solo all’11%. Il Governo Tunisino, però, non è stato a guardare: alle recenti manifestazioni e alle proteste pacifiche sono seguite le repressioni, con oltre un migliaio di arresti. Le misure del governo hanno sortito, inizialmente, il loro effetto, portando i manifestanti lontano dalle strade e dalle piazze, ma quando a Sbeitla, città dell’entroterra tunisino, Haikel Rachdi, un giovane manifestante, viene colpito da un lacrimogeno alla testa e il 25 gennaio viene dichiarato deceduto, le proteste si sono riaccese. Da una parte e dall’altra i ricordi degli scontri del 2011 si sono fatti molto vividi e il governo sembra quasi ripercorrere gli stessi errori fatti in precedenza da Ben Ali.

 

In tutto questo, l’Italia…

E l’Italia questa volta non dovrebbe restare semplicemente a guardare come ha fatto dieci anni fa: la stabilità e la crescita dei nostri vicini dovrebbe essere un nostro obiettivo, non solo per il loro benessere, ma anche per il nostro. La Tunisia, con le sue luci e le sue ombre, nell’ultimo decennio è stata per noi un buon interlocutore e il solo rischio che il processo democratico degeneri verso una linea autoritaria com’è successo nel vicino Egitto o, peggio ancora, in interminabili scontri, com’è, invece, accaduto in Libia, è per noi scenario increscioso: dobbiamo imparare dagli errori del passato.

Il Paese berbero è uno Stato di emigrazione, un fenomeno che ci riguarda molto da vicino, visto che dei 36 mila migranti giunti sulle coste italiane, tredici mila sono di nazionalità tunisina. Anche il 50% della popolazione dei detenuti nei CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) condivide la medesima provenienza.

Questo agosto, la Ministra Lamorgese ha firmato per conto del Governo italiano un accordo, tuttora segreto, con il premier tunisino Hichem Mechichi, secondo il quale da ottobre viene data la possibilità all’Italia di rimpatriare fino 80 migranti irregolari di origine tunisina alla settimana, con due voli settimanali che collegano l’aeroporto di Palermo a quello di Enfidha-Hammamet. Visto da fuori questo accordo sembra una soluzione temporanea a un problema più grosso di contenimento dell’immigrazione clandestina, controllo che la Tunisia stessa adopera criminalizzando la migrazione irregolare tramite una legge pubblicata nel 2006 sotto il regime autoritario di Ben Ali e che tuttora permane con la condiscendenza dell’Europa.

È sconcertante pensare che questo sia il modo di agire per un Paese civile e la risposta a questo problema dovrebbe essere ben altra, visto che il più delle volte si gioca con le vite di chi ha come unica colpa quella di cercare un futuro migliore per sé e per i propri figli.

Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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