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di Samuele Franciolini

La questione ucraina negli ultimi 10 anni è ritornata prepotentemente nella discussione politica internazionale, prima con l’invasione e l’annessione della Crimea e la secessione delle province del Donbass e poi, più recentemente, in seguito all’invasione russa del paese. Essa non è tuttavia una novità. Uno spunto di riflessione interessante in merito ci era già stato fornito, circa un secolo fa, da quello che molti definirebbero il più grande letterato di lingua russa del ‘900, Michail Afanas’evič Bulgakov (1891-1940), nel suo primo romanzo La guardia bianca (trasposto in teatro nel dramma di successo I giorni dei Turbin). L’opera racconta la vita di una famiglia dell’intelligencija ucraina nell’inverno a cavallo fra il 1918 ed il 1919. Il primo atto del romanzo racconta la caduta del regime nazionalista dell’Etmano, che aveva attuato un colpo di Stato nell’aprile dello stesso anno con il sostegno delle forze di occupazione tedesche, per mano delle bande di contadini guidate da Petljura. La storia prosegue quindi con i due mesi di occupazione di Kiev da parte dei rivoltosi e si conclude con l’arrivo dei bolscevichi.  L’articolo andrà ad analizzare le similitudini fra il racconto di Bulgakov e la situazione odierna, su due assi principali, prendendo in considerazione i contrasti fra ucraini e russi che vengono narrati nel romanzo e la travagliata storia dell’autore con la censura stalinista. 

Ciò a partire dalle stesse origini del letterato che, nonostante scriva in russo, è in realtà ucraino e molto legato alle sue radici. L’utilizzo del russo come lingua della letteratura è figlio sicuramente della tendenza accentratrice dei governi russi da Pietro il Grande in poi. Le due capitali infatti, Mosca e San Pietroburgo, erano e sono ancora due poli fortemente attrattivi sia per quanto riguarda l’apparato statale che per il mondo  letterario che, già nel regime zarista e ancora di più col comunismo, era legato a doppio filo con quello governativo. Il giovane Michail Afanas’evič quindi, nel 1921 si reca a Mosca dove intraprenderà una folgorante carriera di autore di racconti e romanzi. Il primo di questi è appunto La guardia bianca che, parzialmente autobiografico, affronta il tema del complicato rapporto fra il popolo ucraino e quello russo. I protagonisti della storia sono i fratelli Turbin, Aleksej, Nikolaj ed Elena, giovani, colti ed appartenenti a quella borghesia perfettamente integrata nel regime zarista che aveva sempre guardato con sospetto la rivoluzione. Questo tratto è particolarmente visibile nel maggiore dei fratelli: Aleksej, medico come lo stesso Bulgakov, che ripensa con nostalgia ai giorni di Nicola II nella scena che apre il romanzo. La contrapposizione che ci viene presentata dall’autore infatti, non è tanto quella etnica fra russi e ucraini, tanto che i Turbin non si fanno problemi a sostenere prima lo Zar russo e poi il regime nazionalista dell’Etmano, bensì quella di classe fra borghesi e popolo ma soprattutto fra abitanti della città e della campagna. Fra le altre cose questo libro è infatti un’appassionata dichiarazione d’amore dell’autore alla sua città natale Kiev, mai nominata esplicitamente nel romanzo, descritta in modo particolarmente lirico e ispirato. Il cosmopolitismo e la modernità di quella che fu la prima capitale politica e religiosa della Russia vengono messi in forte opposizione con il provincialismo delle campagne. Questo fine è raggiunto in una duplice maniera: mostrando il personaggio di Lariosik, bizzarro parente dei Turbin accorso in città dalla campagna in seguito ad un matrimonio terminato tragicamente, sia mostrando l’odio cieco che le bande di Petljura provano nei confronti dei cittadini e degli ufficiali e che, al momento della presa della città, si traduce in sanguinosi massacri. Bulgakov tuttavia, pur essendo per nascita e per formazione rappresentante di quella borghesia di cui fanno parte i fratelli Turbin (potremmo dire, prendendo in prestito le parole da Flaubert, “Aleksej Turbin c’est moi”), ci mostra di comprendere e condividere anche le ragioni dei contadini, mostrandoci la corruzione del regime dell’Etmano e le angherie subite dalla popolazione rurale.

Nonostante il conflitto principale raccontato nel romanzo sia questo, nella versione originale del romanzo l’autore fa ampiamente ricorso alla lingua ucraina, per riportare le parole di  personaggi appartenenti a classi popolari. Questa dicotomia anche linguistica sottolinea quindi il contrasto tra un’élite colta, russofona e perfettamente integrata nello Stato zarista, ed una popolazione ucraina da esso vessata e disprezzata. Lo stesso Bulgakov scrive in russo in quanto lo standard letterario, fin dai tempi dello Zar Pietro, era quello definito dalle élite governative, pietroburghesi prima, moscovite poi, in modo simile a quello che il parigino è stato per il francese. Per questo motivo l’ascrizione dell’autore a una letteratura russa o ucraina risulta priva di significato tanto erano strette le contaminazioni all’interno di un impero multietnico come quello zarista.

Tuttavia l’uso dell’ucraino e la vicenda raccontata non furono ben viste, nel clima di crescente repressione che pervade l’Unione Sovietica negli anni 20’ del XX secolo. La stessa Guardia bianca infatti, pubblicata a puntate sulla rivista Rossija nel 1925, subisce la scure stalinista e non viene terminata. Il finale originale infatti, viene rimaneggiato dall’autore stesso in occasione della rappresentazione del dramma tratto dall’opera “I giorni dei Turbin” che diventa un successo in tutta l’URSS. Proprio questo successo sarà la dannazione di Bulgakov, un autore che per tutta la vita è stato dilaniato dal contrasto tra l’esigenza di pubblicare per vivere e il suo dover sottostare alla censura. I giorni dei Turbin infatti, per uno scherzo del destino, venne molto amato dal dittatore sovietico che più volte presenziò alle sue rappresentazioni nei teatri di Mosca. Questo dilemma, che viene approfondito nel suo capolavoro Il maestro e Margherita di cui ricordiamo la celebre battuta pronunciata dal diavolo “i manoscritti non bruciano”, sarà al centro della vita dell’autore. Il complicato rapporto del letterato con il dittatore divenne in seguito anche personale; a seguito di una missiva inviata dal romanziere ai rappresentanti del potere sovietico in cui denunciava la sua impossibilità di esprimersi come autore in un regime tanto soggetto alla censura (“non potere scrivere, per me, equivale a essere sepolto vivo”) e chiedeva pertanto di espatriare, Bulgakov ricevette infatti una telefonata dallo stesso Stalin che gli permise di lavorare nel Teatro dell’Arte dell’URSS. Questa “grazia” accordata all’autore dal regime, il ruolo di Bulgakov come autore teatrale e la censura soffocante della Mosca negli anni ‘20 sono trattati approfonditamente nel romanzo. A partire dalla scena iniziale in cui il diavolo predice e poi assiste alla morte di due poeti di regime, al romanzo del maestro e allo spettacolo di magia organizzato dallo stesso Woland. In questo senso satana viene presentato non come il male assoluto bensì come un personaggio freddo e definitivo capace di estrema crudeltà ma anche come una forza liberatrice e provocatoria capace di creare scompiglio in una società rigida e dogmatica come quella stalinista e persino di aiutare i protagonisti. Il manoscritto del maestro infatti, da lui bruciato in un momento di follia, viene riesumato dagli aiutanti di Woland. 

Il tema della censura si è riproposto prepotentemente nella Russia odierna: da Anna Politkovskaya, uccisa nell’ascensore del suo palazzo, ad Aleksej Navalnij, morto in carcere negli ultimi giorni dopo essere stato a lungo silenziato dal regime di Putin e agli altri innumerevoli giornalisti e intellettuali messi a tacere dall’ex colonnello del KGB negli ultimi vent’anni. Oggi come allora la censura diventa quindi un punto in comune fra due regimi autocratici a prescindere dalla loro fortissima contrapposizione ideologica. Un esempio chiarissimo della censura cui è stato soggetto Bulgakov è il finale del La guardia bianca; il finale originale infatti, mai pubblicato ma riapparso (“i manoscritti non bruciano” appunto) a partire dall’86 quando il sol dell’avvenire sovietico era ormai prossimo al tramonto, venne rimaneggiato in più occasioni fino all’edizione definitiva del ‘29 che presenta i bolscevichi, liberatori di una Kiev occupata da bande di contadini nazionalisti, in una luce molto più positiva

Un secolo dopo la pubblicazione  del romanzo, le vicende narrate sono ancora attuali. Terra ancora senza pace, l’Ucraina continua ogni giorno a farne le spese e un popolo, quello russo, è ancora oppresso da un dittatore, non più monarchico o sovietico, ma ancora autoritario e sanguinario. Noi non siamo assolutamente in grado di formulare soluzioni a questo problema, tuttavia la coscienza ci spinge ad interrogarci se la situazione in cui ci siamo gettati abbia un via d’uscita. Possiamo chiederci quale fosse, a proposito, il pensiero di un fine intellettuale quale Bulgakov. Il romanzo si chiude infatti con un interrogativo sulla natura umana che è rivolto a ognuno di noi. Davanti alla sofferenza della famiglia Turbin e di tutti gli abitanti di Kiev l’autore ci regala un passaggio intriso di speranza:

“Ma non faceva paura. Tutto passa. Le sofferenze, i tormenti, il sangue, la fame e la pestilenza. La spada sparirà, e le stelle invece rimarranno, quando anche le ombre dei nostri corpi e delle nostre azioni più non saranno sulla terra. Le stelle rimarranno allo stesso modo immutabili, allo stesso modo scintillanti e meravigliose. Non esiste uomo sulla terra che non lo sappia. Perché allora non vogliamo la pace? Perché non vogliamo rivolgere il nostro sguardo alle stelle? Perché?”

Redazione GD

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