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di Davide Gianmoena

Lo smart working è uno strumento rivoluzionario che permette una migliore conciliazione tra lavoro e vita familiare o, banalmente, più tempo per sé stessi. Inoltre, secondo un sondaggio svolto da Deloitte il 90% delle aziende considera lo smart working la soluzione ideale per garantire la sicurezza e la salute dei propri dipendenti, il che spiega la rapidità con cui le aziende si sono adattate a questa misura di fronte a una crisi sanitaria senza precedenti.

Spesso si pensa anche al lavoro agile come una soluzione all’inquinamento e si sentono affermazioni tipo “Ah almeno la quarantena farà bene all’ambiente perché inquiniamo di meno stando a casa!” Ma è proprio così? Vale l’equazione “smart working = sostenibilità ambientale” oppure questa è una visione semplicistica e poco approfondita della realtà?

In primis, cosa si intende per “pratica sostenibile”?

Una pratica può essere sostenibile se e solo se prevede un orizzonte a medio-lungo termine con una strategia volta a minimizzare l’impatto ambientale. Lo smart working, quindi, può essere una pratica sostenibile, purché sia implementato con criterio e tenendo conto, ad esempio, degli spostamenti casa-lavoro dei dipendenti, dell’efficienza energetica degli uffici e delle case, delle fonti di alimentazione energetica di questi edifici.

I dati e le prove

Analizzando alcuni dati riguardanti la qualità dell’aria di Milano delle scorse settimane, confrontata con i dati relativi lo stesso periodo, ma dell’anno scorso, si nota come a seconda del tipo di agente inquinante la situazione vari o rimanga inalterata a seguito del blocco scattato con la quarantena.

Per quanto riguarda i livelli di alcuni inquinanti direttamente e univocamente collegabili al traffico veicolare e all’attività industriale, tra cui spicca su tutti il gas diossido di azoto (NO2), sono calati ben al di sotto dei valori medi pre-quarantena, addirittura quasi scomparendo del tutto.

Densità media N02 (mol/m2) nell’area metropolitana di Milano pre e post quarantena

 

PM10 e PM2.5, cioè particolato atmosferico solido dovuto ai residui della combustione, causati in parte dal traffico veicolare ma soprattutto dalle caldaie di uffici e condomini non hanno invece subito diminuzioni così drastiche, registrando un netto calo, dovuto alle piogge intense, solo a inizio marzo.  Questo dato un po’ sorprendente sul particolato ha però una spiegazione molto semplice. Meno persone si spostano con il loro mezzo privato per andare a lavorare, generando meno particolato. Di contro più persone stanno a casa e, poichè le giornate, quantomeno fino a fine marzo, sono state ancora abbastanza fredde, più caldaie sono rimaste accese, determinando quindi una sorta di pareggio.

Densità PM2.5 nel periodo febbraio-marzo 2020 (linea blu) confrontata a febbraio-marzo 2019 (linea rossa) e 2018 (linea verde)

 

Uno studio condotto da WSP U.K., azienda specializzata in consulenze ingegneristiche, è andato proprio a indagare la relazione tra la sede di lavoro e l’impatto ambientale ed offre uno spunto di riflessione importante. Dall’analisi delle emissioni dei dipendenti durante il lavoro a distanza è emerso che lavorando da casa in estate e in ufficio di inverno si possono risparmiare fino a 500kg di CO2. Tuttavia il beneficio è stagionale: stimano infatti che se un impiegato lavorasse da casa tutto l’anno produrrebbe circa 2.5 tonnellate di CO2, circa l’80% in più di un impiegato che lavora in ufficio.  Questo perché lavorare da casa in inverno comporta più caldaie accese che inquinano molto di più di quanto non farebbe il tragitto casa-ufficio. Questi dati legati alle stagioni sono validi unicamente per il Regno Unito, che ha condizioni climatiche diverse da quelle italiane, ma le conclusioni che si possono e si devono trarre valgono per tutti.

Come dice la BBC la sostenibilità ambientale dello smart working è un po’ come una cipolla: ci sono molti più strati (fattori ndr.) da valutare di quanti ne possa prendere in considerazione un singolo studio come quello di WSP.

Un altro aspetto da tenere sicuramente in considerazione è come avviene il tragitto casa – ufficio. Ad esempio, in Norvegia, in cui il 40% delle vetture vendute l’anno scorso era elettrico, l’impatto di questo tragitto in auto sarà mediamente inferiore di quanto non lo sia un tragitto simile compiuto in nazioni come UK e US che fanno ancora molto affidamento sul petrolio come combustibile.

Un altro fattore da tenere ancora in conto per misurare l’impatto reale del lavoro agile è il mix energetico proprio di ogni paese, o addirittura di diverse regioni dello stesso paese: alcune nazioni fanno già affidamento su energie rinnovabili o sul nucleare (anch’esso poco impattante sull’atmosfera) mentre altre si affidano ancora totalmente a carbone e petrolio. Chiaramente, anche qui andrebbe studiata la soluzione più sostenibile, a seconda dei diversi mix energetici. Insomma, la situazione è più complessa di quel che può sembrare ad una prima breve e poco approfondita analisi e bisogna tenere in considerazione numerosi aspetti di grande complessità, tra cui le politiche ambientali attuate negli ultimi anni.

L’ equazione “smart working = sostenibilità ambientale” allora vale o no? Non c’è una risposta precisa. Può valere solo per alcuni periodi dell’anno mentre per altri no, come può valere in mancanza di un efficiente e capillare servizio di trasporto pubblico e nel caso di un mix energetico altamente inquinante. Ma la vera risposta è che lo smart working non può essere l’unico strumento con cui affrontare la crisi climatica e bisogna concentrarsi su politiche di lungo periodo che rendano il pianeta un posto migliore dove vivere.

 

Fonti:

Redazione GD

Redazione GD

La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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