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di Nicolò Radice

L’Unità europea: una questione ancora aperta

Tutt’oggi, il progetto europeo appare un sogno irrealizzabile agli occhi di molti. Uno dei primi ostacoli che si incontra parlando di integrazione europea, infatti, è il problema dell’unità: in un’Europa divisa sulle tematiche più importanti del nostro tempo, come possiamo raggiungere una vera unità? Kundera, scrittore ceco vissuto nella Praga del regime comunista, ha risposto con una capacità quasi profetica a questa domanda, imponendosi così come uno dei più grandi autori del XX secolo. 

Un discorso inversamente proporzionale alla sua brevità

Kundera insorge contro quella divisione artificiale che aveva spaccato l’Europa in tre zone diverse: la pars occidentalis, quella orientalis e la decisamente più complessa area centrale. Geograficamente mediana, politicamente a Est ma culturalmente a Ovest, proietta il prisma centroeuropeo in una dimensione fuori dalla propria storia. 

La situazione contraddittoria a cui questi paesi sono stati portati, passando sotto l’influenza politica e culturale dell’Unione sovietica, ci aiuta a capire come mai, fin dal dopoguerra, le conflagrazioni europee si siano concentrate in quell’area: la rivolta ungherese nel 1956, la Primavera e l’occupazione della Cecoslovacchia nel 1968, le rivolte polacche del 1956, 1968, 1970 e quelle degli anni ’80. 

Il mutamento dell’Europa centrale dopo il secondo conflitto mondiale ha rappresentato, per questi paesi, non solo una catastrofe politica ma una messa in discussione delle loro civiltà e del senso profondo su cui esse si basavano, ovvero l’occidentalità e la sua difesa. 

Le “piccoli nazioni” allora sono le “realtà la cui esistenza può essere messa in discussione in qualsiasi momento, che può scomparire” e la cui identità culturale, dove il popolo si stringe una volta che è mortalmente minacciata, “si riflette e riassume nell’insieme delle creazioni spirituali che solitamente definiamo cultura”. 

In tutte le rivolte centroeuropee, “tanto la memoria culturale quanto la produzione contemporanea” hanno svolto un ruolo decisivo nel creare un susseguirsi di sollevazioni democratiche e popolari che, dopo essere state soffocate dall’URSS, hanno trovato una convergenza nell’abbattimento del muro di Berlino. Sono stati questi momenti storici a costituire l’Europa, più di quanto abbiano fatto i trattati e gli accordi presi negli anni a venire. 

Dalla Primavera di Praga al crollo del Muro di Berlino

Kundera insorge contro quella divisione artificiale che aveva spaccato l’Europa in tre zone diverse: la pars occidentalis, quella orientalis e la decisamente più complessa area centrale. Geograficamente mediana, politicamente a Est ma culturalmente a Ovest, proietta il prisma centroeuropeo in una dimensione fuori dalla propria storia

La situazione contraddittoria a cui questi paesi sono stati portati, passando sotto l’influenza politica e culturale dell’Unione sovietica, ci aiuta a capire come mai, fin dal dopoguerra, le conflagrazioni europee si siano concentrate in quell’area: la rivolta ungherese nel 1956, la Primavera e l’occupazione della Cecoslovacchia nel 1968, le rivolte polacche del 1956, 1968, 1970 e quelle degli anni ’80. 

Il mutamento dell’Europa centrale dopo il secondo conflitto mondiale ha rappresentato, per questi paesi, non solo una catastrofe politica ma una messa in discussione delle loro civiltà e del senso profondo su cui esse si basavano, ovvero l’occidentalità e la sua difesa. 

Le “piccoli nazioni” allora sono le “realtà la cui esistenza può essere messa in discussione in qualsiasi momento, che può scomparire” e la cui identità culturale, dove il popolo si stringe una volta che è mortalmente minacciata, “si riflette e riassume nell’insieme delle creazioni spirituali che solitamente definiamo cultura”. 

In tutte le rivolte centroeuropee, “tanto la memoria culturale quanto la produzione contemporanea” hanno svolto un ruolo decisivo nel creare un susseguirsi di sollevazioni democratiche e popolari che, dopo essere state soffocate dall’URSS, hanno trovato una convergenza nell’abbattimento del muro di Berlino. Sono stati questi momenti storici a costituire l’Europa, più di quanto abbiano fatto i trattati e gli accordi presi negli anni a venire. 

Carro armato a Budapest nel 1956

Il dramma occidentale

Al dramma dell’Europa centrale, paragonabile a nessun altro per portata di eventi, si aggiunge però quello dell’Occidente, che non si è accorto della sua scomparsa e neppure vuole vederla. 

La sparizione del crogiolo culturale centroeuropeo, soffocato dalla censura di Mosca, fu certamente uno degli eventi più decisivi nella storia della civiltà occidentale. Ma allora, com’è possibile che ciò sia rimasto “inavvertito e oscuro”? 

Semplicemente perché l’Europa “non è più capace di sentire più la propria unità come unità culturale”. Su che cosa, infatti, si fonda l’unità Europea? Nel Medioevo si fondava sulla cristianità, essa era regnum christianum, e nei Tempi Moderni si basava sui Lumi, sulla cultura, sulla realizzazione di quei valori supremi attraverso cui l’unità europea si definiva e concepiva. Oggi sta avvenendo un secondo mutamento, non meno importante dei due precedenti: se prima Dio ha ceduto il posto alla cultura, ora questa fa la stessa cosa. ma a chi e a che cosa? La domanda risulta a dir poco problematica.

“In quale ambito si realizzeranno i valori supremi capaci di unire l’Europa? Il mercato? La cultura dello svago?”, chiede Kundera, “o forse il principio della tolleranza, il rispetto del credo e del pensiero altrui?”. Tutti i campi dell’arte e della cultura hanno perso la capacità di costituire il fondamento dell’unità europea. Ci sono ancora infatti grandi pittori, drammaturghi e musicisti, ma essi non occupano più il posto privilegiato delle autorità morali che l’Europa accetterebbe come proprie guide spirituali. Il fatto che i cosiddetti “valori supremi” non si realizzino più nella cultura è un cambiamento epocale, una tragedia con cui è necessario fare i conti. 

“Qui si muore per l’Ungheria e per l’Europa”

Nell’autunno del 1956, quando l’armata russa entrò a Budapest, poco prima che il suo ufficio venisse distrutto dall’artiglieria, il direttore dell’agenzia di stampa ungherese trasmise al mondo intero un telex disperato sull’offensiva che i russi stavano conducendo contro la città e che si chiudeva con queste parole: “qui si muore per l’Ungheria e per l’Europa”. L’ episodio venne ripreso da Kundera all’inizio del discorso tenuto al Congresso degli scrittori, nel quale lo scrittore si interroga circa le parole del direttore ungherese. 

Che cosa voleva dire? L’Ungheria, di certo, era in pericolo, ma perché anche l’Europa? I carri armati russi erano forse pronti a varcare la cortina di ferro e a invadere i paesi occidentali? “No” –risponde Kundera – “il direttore dell’agenzia di stampa ungherese intendeva dire che in Ungheria era l’Europa a essere presa di mira. Perché l’Ungheria restasse Ungheria e restasse Europa, era pronto a morire”. 

In Francia o in America si pensava che in gioco ci fosse la caduta di un regime politico, non l’Ungheria quale nazione o l’Europa: l’eventualità che fosse minacciata l’identità di un popolo non era nemmeno presa in considerazione, né si capiva come l’Europa potesse essere messa in pericolo. Come anticipato prima, non poteva andare diversamente: una volta che la cultura ha perso la sua funzione unificatrice, la capacità di sentire l’unità europea in quanto tale è andata scemando e con questa anche quella di riuscire a comprendere cosa intendesse il messaggio del telex. 

L’Europa per la quale il direttore dell’agenzia di stampa ungherese era pronto a morire – e per la quale è morto – rappresentava per lui un valore essenziale: non gli era neppure passato per la testa che, al di là della cortina di ferro, quest’ultima non fosse più sentita come un valore e che la sua frase non sarebbe stata capita. 

Secondo František Palacky – figura centrale della politica ceca del XIX secolo – l’Europa centrale avrebbe dovuto costituire un nucleo di nazioni libere, eguali fra loro, che nel reciproco rispetto e sotto la guida di uno Stato comune, sarebbero dovute andare a coltivare le loro diverse specificità. l’Europa centrale desiderava essere l’immagine condensata dell’Europa tutta, essere “il massimo della diversità nel minimo spazio”: questo sogno, nonostante non si sia mai realizzato, ha conservato tutt’oggi il suo vigore e l’ascendente che ha avuto nel determinare il corso della storia. 

Il fatto che Kundera abbia voluto riportare il pensiero di Palacky nel suo articolo è di fondamentale importanza per rispondere alla domanda posta all’inizio dell’articolo: il progetto europeo presuppone un’integrazione che, come anticipato da Palacky e rammentato da Kundera, non può prescindere dalla coltivazione delle nostre specificità. Solo quando la sua identità culturale è forte uno stato risulta essere tale, ergo solo identità culturali forti possono essere estese ad una più grande, ad una europea.

Un Occidente prigioniero dimostra, con decenni di anticipo, che solamente riadottando la cultura come base della nostra unità è possibile portare a termine l’integrazione europea e avere così “il massimo della diversità nel minimo spazio”. D’altronde non è un caso che “uniti nella diversità” sia proprio il motto dell’Europa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Redazione GD

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