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di Giovanni Soda

Nella nostra esperienza quotidiana, la crasi di sistema comunicativo e social-mediatico ci appare, giorno dopo giorno, sempre più palesemente nella sua natura, al contempo, fratturata e turbinosa. L’immagine della realtà non è solamente frammentata in una serie di schegge comunque compatte, come avviene in uno specchio rotto o in un mosaico, ma anche soggetta a una ricombinazione vorticosa delle tessere: tutto è, al contempo, frammentato e ribaltato in una maniera tale che ogni ricostituzione di un quadro unitario appare insostenibilmente parziale. 

È all’interno di questo orizzonte che noi viviamo l’esperienza di appartenere alla società civile, ovvero preoccuparsi e discutere di ciò che supera la chiacchiera immediata e lambisce la storia, la scienza, la società, la politica e la filosofia; entra in contatto con forme di comunicazione e partecipazione inedite. 

Aumentano giorno dopo giorno le persone che, a vario titolo, si proclamano “attivisti/e” al servizio di una data causa e dedicano la loro intera vita digitale a  questa. Se ne riscontrano delle più svariate sorti, sia progressisti che conservatori, sempre pronti a stendere post e registrare video in cui si prodigano in accese battaglie. 

Come è noto, le piattaforme dove questi contenuti vengono sviluppati non sono niente affatto neutrali, bensì impegnate a premiare chi, con costanza e regolarità, si muove in un determinato trend e propone contenuti simili, ripetuti e preconfezionati (d’altronde, è da tempo nota la possibilità di algoritmizzare la lotta per la giustizia sociale e l’attivismo). Così, incoraggiati da un sistema comunicativo ad altissima densità e da una società sfilacciata con sempre meno punti di riferimento, ci ritroviamo quotidianamente immersi in qualche “attivista”, spesso della nostra barricata, occasionalmente di quella contraria, pronto a foraggiarci con una visione del mondo. 

Eppure, rimangono in sospeso alcune domande cruciali che non possono non sopraggiungerci. Bisogna, infatti, domandarsi se queste forme contemporanee di attivismo mantengano la forza e l’efficacia che -indubitabilmente- le forme passate ebbero. Da ciò conseguirà una seconda domanda: è tutto ciò utile e -perfino- coerente con la natura della politica? 

 

L’attivista interpreta o cambia il mondo?

Indubitabilmente, ogni azione politica degna di questo nome richiede idee che la illuminino e non può essere fatta senza che alle sue spalle operi un pensiero. D’altronde, era questo il senso della celebre undicesima tesi su Feuerbach di marxiana memoria, scritta in epoca in cui si era ormai certi di aver raggiunto un tale livello di lucidità teorica capace, di per sé, di produrre una prassi trasformativa della realtà.  Nella sua dimensione classica (si pensi, ad esempio, ad un personaggio come Martin Luther King), l’attivista è colui che compie precisamente questa funzione: attraverso una rete di idee, una visione del mondo, produce un movimento volto a cambiare lo stato vigente delle cose. 

L’attivista social contemporaneo si muove nel medesimo solco di quello classico? A prima vista, si potrebbe credere che, al giorno d’oggi, si verifichi semplicemente una trasposizione digitale delle forme di attivismo a cui la storia ci ha abituati. Eppure, un gran numero di segnali depositano in direzione contraria. Innanzitutto, la gran parte delle analisi compiute dall’attivista contemporaneo sembrano prive di un’origine, concetti come quello di “cultural appropriation” o di “oppressione sistemica” sorgono, ad un’indagine storica reale, da un determinato ceppo culturale, si trovano in dei testi e in precise argomentazioni logiche. Nonostante ciò, la maggior parte di noi intercetta queste idee in tristi versioni asettiche, stringate e liofilizzate che non restituiscono l’elemento fondamentale di ogni idea: il ragionamento individuale che le produce. Così,  la causa politica sui social diviene sempre più qualcosa che “Si fa”, “Si persegue” e “Si cerca” senza capire da dove provenga questo “Sì”: le idee circolano senza che sia possibile ritrovarvi un’origine. Questo processo, ovviamente, è incoraggiato dalla brevità dei messaggi social, brevità al contempo imposta dalla piattaforma e richiesta dal pubblico. Il risultato di tutto ciò è un sistema schizofrenico in cui i messaggi si moltiplicano esponenzialmente andando a produrre idee ridotte ad atomi che sembrano galleggiare nel vuoto.

La perdita di una bussola di riferimento nell’organizzazione dei contenuti comporta un secondo effetto profondamente problematico. Come è ormai noto, le piattaforme social dove l’attivismo viene portato avanti non sono sfondi neutri. I lauti proventi di Meta, Google e affini derivano, infatti, dalla capacità di costruire e gestire una giuntura perfettamente oliata fra sistema tecnologico (l’algoritmo) e rendita economica. I guadagni sono direttamente collegati al numero di click effettuati, pertanto, coloro che producono i contenuti online, sono premiati nel momento in cui attirano visualizzazioni e ricondivisioni.

Si determina, a partire da ciò, un gusto per lo scandalo e una propensione al radicalismo che, invece di rispecchiare un reale movimento di idee approdato alle sue estreme conclusioni, è dettato dalla necessità di rimanere a galla, di non piombare nell’anonimato e di mantenersi sulla cresta dell’onda mediatica. 

Così, vediamo costantemente attivisti di varia sorta affermare con vigore tesi strampalate e decontestualizzate (come abbiamo appreso da casi recentissimi) al solo fine di moltiplicare enormemente le interazioni. In questa catena di elementi conseguenti il radicalismo non viene più raggiunto come piena presa di coscienza della necessità di visioni nette in risposta a tempi profondamente difficili ma come ossessiva ricerca sloganistica che finisce per approdare a conclusioni estreme per il puro e semplice gusto di scandalizzare, una tendenza scarsamente politica e nient’affatto ideale. 

Cosa permette lo sviluppo di questo radicalismo sgangherato volto unicamente alla produzione di interazioni? Ci si è già soffermati sulla causa materiale, l’incoraggiamento che le piattaforme offrono ai content creator e occorre, ora, indagare quella umana. Come ha osservato un celebre scrittore americano, i meccanismi sottesi al funzionamento delle piattaforme sociale tendono a costruire echo chambers, camere d’eco, in cui non si sente nient’altro che il rimbombo costante della proprio voce, senza che nessun rumore esterno interferisca. L’algoritmo associa naturalmente noi ai nostri gusti e alle nostre preferenze, più mostriamo di apprezzare una cosa più veniamo esposti ad essa. Questo meccanismo, che può essere anche virtuoso dal punto di vista commerciale, è profondamente dannoso in politica. Base fondamentale di qualsiasi decisioni legislativa -nonché di ogni processo democratico- è, infatti, la possibilità di entrare in contatto con l’alterità, di andare ai ferri corti con le opinioni altrui che, per quanto becere, meschine, stupide e reazionarie possano sembrare, finiscono sempre per imporci un decentramento e ci costringono a valutare le nostre certezze almeno da due prospettive. Nell’esposizione alla echo chamber algoritmica si finisce per sentire unicamente il rimbombo della propria voce e per essere circondati da persone con le nostre medesime opinioni. Ciò è valido, a maggior ragione, nel momento in cui si occupa una posizione “di rilievo”. Chi gode di un determinato seguito si trova ad essere contornato da una serie di yes men che asseriscono ogni posizione senza rilievo critico. Un’esperienza dell’alterità fortemente limitante e non autentica sancisce la fine dell’imprevedibilità e la fossilizzazione su schemi a priori che si riproducono da sé senza bisogno di alcun contatto esterno.

 

Perchè è meglio un partito (e un intellettuale classico)

Dunque, sono dunque tre le ragioni che rendono l’attivismo digitale poco appetibile: 1) la perdita di un orizzonte di riferimento; 2) l’impulso a cercare un radicalismo strampalato volto unicamente a catturare interazioni; 3) l’oblio del contatto con l’Alterità e le opinioni altrui. Sarebbe riduttivo classificare tutto ciò sotto la grossolana etichetta di “disinformazione”, quanto affermano gli influencer dell’attivismo sociale non è -infatti- nè vero nè falso ma unicamente antipolitico

La politica in democrazia, nel suo senso più alto e nobile, è infatti caratterizzata dall’ancoraggio saldo a una serie di radici e dall’apertura al compromesso fra parti, da cui consegue una costante riserva all’adozione piena di misure reali. 

Certamente, come si affermava in precedenza nessuna grande politica è mai stata fatta senza l’illuminazione delle idee. Ma queste idee sono state classicamente prodotte da determinate fonti intellettuali che trovavano, poi, una concretizzazione in un partito come forza politica reale in grado di portare a concretezza quelle idee. Ciò ha ben poco a che vedere con la sub-umanità indotta dal sistema socialmediatico agli attivisti contemporanei, lontani anni luce da questo processo di continuo rimbalzo e illuminazione reciproca fra teoria e prassi. 

Sarebbe dunque un errore ritenere l’attivista contemporaneo il semplice erede di forme classiche di attivismo e formulazione intellettuale. La distanza dalle forme organizzate della politiche non fa altre che produrre alienazione e, per quanto la riflessione libera e delle linee di fuga rispetto alle istituzioni debbano necessariamente formarsi in ogni epoca e possano trarre una profonda vitalità dai social, l’unione di queste forme con la crescente sfiducia nella capacità delle istituzioni e della politica di fornire un orientamento ci proietta in un circolo vizioso, una sanguinosa emorragia che sembra sempre più difficile da arrestare. È importante rivendicare continuamente la distanza della politica, della grande politica, da molti fuochi fatui che possono generarsi sui social, ricordando che essa differisce da essi e che, da questa sua capacità di distanziarsi, consegue la grandezza e la profondità di cui è stata storicamente capace. 

Ogni generazione deve condurre le battaglie e formulare l’interpretazione del tempo che si trova ad occupare, questo compito impellente non può essere delegato a nessuno di esteriore: soltanto noi possiamo essere all’altezza di noi stessi. 

Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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