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di Michelangelo Colombo

Da decenni si discute di riformare la Costituzione per risolvere il problema dell’instabilità dei governi e della lentezza per l’approvazione delle leggi. Alcune forze politiche propongo di cambiare il sistema di governo, altre di riformarlo e altre ancora di non cambiare la Costituzione. Qual è quindi la soluzione migliore? Vediamolo. Leggi gli altri articoli di RiCostituzione qui

Nel corso degli anni della Repubblica, nelle menti di molti politici, di qualunque schieramento, si fece strada un’idea: se il parlamento non era in grado di garantire dei governi stabili al Paese, perché non dare agli italiani il potere di scegliere a chi affidare le redini del governo? Era un’idea che mirava a stravolgere l’intero assetto istituzionale italiano. Si guardava alla vicina Francia, considerata dai più come una “sorella gemella”, che nel 1958, sull’orlo della guerra civile, aveva abbandonato la forma di governo parlamentare instabile, elaborando una propria forma di governo: il sistema semi-presidenziale, con un Presidente della Repubblica eletto direttamente dai cittadini con nuovi poteri esecutivi, affiancato da un Primo Ministro alla guida del governo, che deve avere la fiducia dell’organo legislativo più importante, il Parlamento, il quale mantiene gli stessi poteri previsti da un  sistema parlamentare. 

La differenza quindi fra i due modelli sta proprio nell’organizzazione del potere esecutivo, dove il vertice non è più il Consiglio dei Ministri, ma il Presidente della Repubblica, che incarna sia l’unità della nazione e il rispetto della Costituzione, sia una visione politica emersa dalle urne con il voto delle cittadine e dei cittadini. 

Egli però non è il “solo uomo al comando”, perché ha al suo fianco il Primo Ministro, che guida il Governo composto dai singoli ministri; si tratta quindi di una diarchia o governo bicefalo

In Italia già nel 1948, durante i lavori dell’Assemblea Costituente, si discusse sulla possibilità di adottare l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Piero Calamandrei, antifascista e uno dei fondatori del Partito d’Azione, era il più accesso sostentitore: egli propose una repubblica presidenziale con “pesi e contrappesi” come negli Stati Uniti o un sistema parlamentare sul modello britannico, per evitare la debolezza dei governi, come si verificò poi puntualmente durante la storia della Repubblica, e allo stesso tempo, impedire la deriva autoritaria insita sia nel troppo potere sia nel disordine delle istituzioni, come era avvenuto col fascismo. 

La Commissione dei Settantacinque elaborò una proposta che riprendeva molto del premierato britannico (di cui abbiamo parlato in un articolo precedente) ma alla fine il ruolo del capo del governo venne ridotto a semplice primus inter pares. Per il capo dello Stato vennero definiti dei poteri soprattutto cerimoniali, mentre il Parlamento divenne il centro di tutta l’attività politica (secondo il così detto modello assembleare).

Questa volontà da parte delle forze politiche di ridurre il più possibile i poteri sia del capo del governo sia del capo dello Stato era figlia di due importanti motivazioni: il passato ventennio fascista e il rischio di una guerra civile. La dittatura di Mussolini era stata una “dittatura dell’esecutivo”, che aveva svuotato il Parlamento dei suoi poteri, arrivando perfino a sostituire la Camera dei Deputati con un organo non elettivo, il Gran Consiglio del Fascismo. Il ricordo di un uomo che si era elevato sopra tutti e aveva agitato le masse era ancora vivido nei politici italiani antifascisti, che decisero che mai più nessuna o nessuno sarebbe riuscito ad accentrare il potere nelle proprie mani. L’Italia usciva dalla guerra civile tra resistenza antifascista e collaborazionismo nazifascista e si ritrovava nuovamente spaccata tra lo schieramento democratico e lo schieramento comunista (che rispecchiava il progressivo calare della cortina fra USA e URSS) e rischiava di precipitare in un secondo conflitto civile. Il Paese era ridotto a un cumulo di macerie e bisognava ricostruire, i politici decisero quindi di collaborare, elaborando una Costituzione di compromesso. 

La proposta dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica riprese vigore dopo il 1958 quando, in Francia, Charles De Gaulle elaborò la nuova Costituzione francese. In Italia Randolfo Pacciardi, esponente del Partito Repubblicano Italiano, nel 1964 decise di fondare un nuovo partito, l’Unione democratica per la Nuova Repubblica. L’obiettivo di Pacciardi era introdurre il modello semi-presidenziale e una legge elettorale maggioritaria a doppio turno come in Francia. La sua iniziativa non ebbe seguito e il tema tornò alla ribalta quando divenne Presidente del Consiglio dei ministri, Bettino Craxi, nel 1983. Gli anni della dittatura fascista erano relativamente lontani e nel Paese si avvertiva la necessità di un grande rinnovamento, a partire dalla forma delle stesse istituzioni repubblicane. Andava scemando il pericolo del comunismo rosso -grazie all’operazione di distanziamento dall’URSS adoperata dal PCI-  l’Italia era pronta per una democrazia dell’alternanza, basata non più su un sistema proporzionale, ma maggioritario e con l’elezione diretta del Presidente della Repubblica.

La “Grande Riforma” di Craxi non ebbe seguito perché di lì a poco il sistema politico italiano assodato crollò sotto i colpi di Tangentopoli.

La fine dei partiti tradizionali diede però un nuovo slancio alla volontà di rinnovare la Costituzione,  con l’inizio della “Seconda Repubblica”, e l’alba di un semi-bipolarismo tra due nuovi schieramenti: la coalizione di centrodestra e la coalizione di centrosinistra. Nel 1997 le principali forze politiche, membri della commissione parlamentare per le riforme costituzionali, presieduta da Massimo d’Alema (da qui il nome Bicamerale d’Alema), raggiunsero un accordo sull’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Nel 1998 Silvio Berlusconi decise di ribaltare il tavolo tornando a favore di un modello proporzionale e del cancellierato, quindi la riforma cadde nel nulla. 

La proposta semi-presidenziale rimase nel tema politico per i successivi venti sei anni fino ad oggi, senza che nessuna forza politica riuscisse a farla approvare. 

La forma di governo semi-presidenziale presenta, logicamente, dei vantaggi e degli svantaggi. Non è quindi perfetta. I vantaggi sono che da un lato l’organo esecutivo diventa più indipendente dall’organo legislativo, perché ora deriva dal Presidente. Questo, infatti, è dotato del “potere di revoca”, ovvero della possibilità di rimuovere il Primo Ministro e i restanti dicasteri qualora essi non rispettino il programma affidato dalle urne all’esecutivo. Ovviamente, il Primo Ministro deve chiedere la fiducia del Parlamento, che funge da contrappeso. Si tratta quindi di un sistema bicefalo, della doppia fiducia, che si trova a metà tra il sistema presidenziale e quello parlamentare. 

L’elezione diretta di una carica monocratica porta sempre con sé il rischio di un’eccessiva personalizzazione della politica e quindi di una deriva autoritaria e plebiscitaria. Prima di adottarla, sarebbero necessari dei pesi e contrappesi per rendere equilibrata la divisione dei poteri e anche la stessa campagna elettorale tra i diversi partiti. 

 

Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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