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di Samuele Franciolini

La storia di una democrazia è spesso anche la storia delle regole che questa democrazia si è data. Fra queste regole, una di quelle che senz’altro hanno più influenzato il gioco democratico è la legge elettorale. Se infatti mettiamo al centro di una sana vita democratica l’appuntamento elettorale, capiamo come le modalità di svolgimento delle elezioni assumano un ruolo fondamentale non solo nel determinare, nel caso di una repubblica parlamentare come la nostra, le quote di deputati e senatori da attribuire ai vari partiti; ma anche nel disegno e nell’evoluzione del panorama politico. Questo articolo si propone proprio questo: attraverso l’analisi delle varie leggi elettorali che si sono avvicendate in questo paese analizzare la storia politica stessa del paese e mettere in evidenza come spesso le influenze fra questi due ambiti sono vicendevoli e molteplici.

 

Prima di entrare nel vivo è, però, necessario andare a puntualizzare quali sono i dettami costituzionali che riguardano la legge elettorale. Sebbene, infatti, essa non sia contenuta all’interno della Costituzione e possa essere modificata in modo analogo ad una legge ordinaria, vi sono alcuni capisaldi che i padri costituenti hanno ritenuto necessario fissare. L’articolo 48 definisce il corpo elettorale e la natura del voto: personale ed eguale, libero e segreto. Introduce inoltre le condizioni in cui il cittadino perde il diritto ad usufruire di questo diritto. L’articolo 56 si occupa dell’elezione dei deputati, in particolare dell’età necessaria per qualificarsi come elettorato passivo e attivo (maggiore età e 25 anni), e dell’estensione del corpo elettorale (suffragio universale diretto). Fissa inoltre il numero dei deputati nella Camera bassa, originariamente definiti in base alla popolazione, poi 630 e infine portati a 400 dal referendum costituzionale del settembre 2020. L’articolo 57 invece definisce analoghi requisiti per il Senato: elettorato attivo a 18 anni (abbassati dai precedenti  25 con l’ultima riforma), elettorato passivo a 40; il numero dei membri della camera alta è fissato a 200. Esso introduce inoltre la più rilevante distinzione tra le due camere in termini di legge elettorale; se, infatti, per la Camere il territorio è suddiviso in circoscrizioni, la ripartizione dei seggi al Senato deve avvenire necessariamente su base regionale con un minimo di tre rappresentanti a regione. Questo causa una leggera sproporzione della “potenza” del voto tra i cittadini delle diverse regioni. I precedenti articoli fissano infine il numero di deputati da eleggere nella circoscrizione estera. Le modalità di ripartizione dei seggi, se conforme a questi punti appena enunciati, può essere quindi modificata senza intaccare la carta costituzionale. Questo è avvenuto molte volte nel corso della breve vita della nostra repubblica, in particolare a partire dagli anni ‘90. Vedremo, quindi, come dal monolitico sistema proporzionale che caratterizzò la cosiddetta Prima Repubblica; si è passati in seguito a un tentativo di maggioritario e come tutt’oggi, le forze politiche siano alla ricerca di una legge che riesca a garantire la governabilità senza sacrificare la rappresentanza dei cittadini.

 

Fin dall’immediato dopoguerra, il governo provvisorio aveva scelto, sia per le elezioni amministrative che per quelle politiche, un sistema proporzionale in cui l’elettore barrava il simbolo del partito desiderato e poteva esprimere, scrivendo sulla scheda fino a 3 preferenze fra i candidati presenti nella lista del partito per il suo collegio. A ciascun circoscrizione era assegnato un certo numero di seggi che venivano ripartiti fra le forze politiche in modo proporzionale con il metodo dei quozienti imperiali. I seggi erano poi assegnati ai candidati del partito che avevano ottenuto più preferenze. La stessa legge era valida per il Senato con l’eccezione che, qualora un partito avesse raggiunto il 65% dei voti espressi in un certo collegio allora quel seggio sarebbe stato assegnato con un uninominale secco. La soglia del maggioritario, fissata appositamente alta, faceva sì che, di fatto, anche il Senato venisse eletto in modo proporzionale. I seggi assegnati con l’uninominale infatti non furono mai più di 15 (1948) e spesso si ridussero a uno o due. I punti cardine di questa legge erano fondamentalmente due: 1) il grosso risalto che veniva dato ai partiti; era infatti  loro il simbolo su cui gli elettori mettevano la croce, e 2) le preferenze. Questi due aspetti riflettono perfettamente quello che era la vita politica del paese in quegli anni: i partiti, in particolare il PCI e la DC erano organizzazioni di massa, estremamente presenti nella società. Il numero dei loro iscritti era dell’ordine dei milioni ed essi costituivano un collante in un’Italia, quella dell’immediato dopoguerra, dilaniata da tensioni estremamente forti. Basti pensare al caso dell’attentato a Palmiro Togliatti, segretario del PCI che usciva sconfitto dalle elezioni di aprile dello stesso anno, del 14 luglio 1948. In quella occasione infatti, i comunisti furono capaci di portare in piazza, in un paese che ancora mostrava le ferite della guerra, centinaia di migliaia di persone in poche ore e i sindacati indissero uno sciopero generale. Riuscirono inoltre, in modo ancor più sconvolgente, a mantenere sotto controllo questa folla e ad evitare rivolte in un paese in cui ancora la maggioranza delle persone aveva le armi in casa.

Questo è ancora più impressionante se si pensa che i mezzi di comunicazione di cui disponevano erano sì rapidi, ma neanche lontanamente paragonabili a quelli che abbiamo a disposizione oggi. La presenza delle preferenze, inoltre, rendeva possibile misurare ad ogni elezione i rapporti di forza all’interno di partiti così complessi e variegati e rafforzava fortemente il legame fra il parlamentare e il suo territorio. Tuttavia, poteva favorire l’insorgenza di meccanismi clientelari: i parlamentari si occupavano esclusivamente dei loro elettori trascurando il benessere generale del paese. Uno dei casi più emblematici e divertenti a questo proposito è quello dell’autostrada A24-A25 Roma-Pescara-L’Aquila-Teramo. Essa deve infatti il suo tragitto ramificato ad un accordo fra i parlamentari democristiani abruzzesi Lorenzo Natali e Remo Gaspari. Ciascuno dei due, infatti, voleva che l’autostrada passasse per la propria circoscrizione in modo da ingraziarsi gli elettori. Questa scelta frutto del compromesso tuttavia, fu fortemente criticata dai giornali dell’epoca perché costosa ed inefficiente. I recordman delle preferenze tuttavia furono, in ogni occasione, leader dei principali partiti; l’uomo che più incarnò questo ruolo è senz’altro “Il Divo”, Giulio Andreotti, primo in quattro occasioni (1958, 1972, 1979, 1987) e secondo nelle altre sei dietro a politici del calibro di De Gasperi (1948, 1953), Moro (1963, 1968) e Berlinguer (1976, 1983). Unica deroga a questo sistema ben rodato durante la Prima Repubblica furono le elezioni del ‘53 in cui si votò con la legge a firma del democristiano Mario Scelba, definita dalle opposizioni socialiste e comuniste “legge truffa”. Questa, infatti, introduceva un premio di maggioranza che consentiva alla somma delle liste vincitrici di ottenere il 65% dei seggi qualora esse superassero il 50% dei suffragi espressi. Questa soglia era particolarmente rilevante perché permetteva di andare a modificare la costituzione senza la necessità di passare per il voto popolare. Alle elezioni, la coalizione centrista formata da DC, PRI, PLI e PSDI, grazie alla crescita delle sinistre e delle destre  raggiunse “solamente” il 49,8% peggiorando fortemente il risultato del ‘48 e quindi non riuscì ad attivare il premio di maggioranza. La legge, fortemente criticata, venne poi abrogata l’anno successivo. 

Questo sistema entrò pesantemente in crisi a partire dalla fine degli anni 70’, sebbene infatti comunemente la cesura fra prima e seconda repubblica sia identificata da Tangentopoli; i segnali del suo inequivocabile declino erano ben presenti già da prima. Marco Damilano, giornalista ed ex direttore del settimanale L’Espresso, identifica questo momento di passaggio con il sequestro e il conseguente assassinio di Moro. In quell’occasione, infatti, le possibilità di rinnovamento del sistema furono definitivamente spazzate via e i partiti, non più capaci di interpretare le nuove istanze provenienti dalla società civile ridotti, specialmente la DC, a strutture di mera gestione del potere, condannati ad un eterno e logorante governo del paese. Sintomo di questa crisi fu la nascita e poi l’entrata in parlamento, nel corso degli anni ‘80, di nuovi partiti: il Partito Radicale di Pannella e Bonino, di lunga data ma che seppe rinnovarsi in quegli anni grazie alle battaglie su divorzio ed aborto, i Verdi, e la Lega Nord. Ci furono, poi, esperienze meno rilevanti dal punto di vista politico ma molto importanti come fenomeno di costume: è il caso del Partito dell’Amore della pornostar Cicciolina, eletta alla camera nel 1987, che portava avanti battaglie per la liberazione sessuale della società. A ciò si unì un incremento del consenso dei partiti che venivano percepiti come più “nuovi” come il PSI di Bettino Craxi e il PRI di Giorgio La Malfa. In un tentativo di rinnovamento della coalizione di governo infatti, due esponenti di questi partiti: Spadolini e lo stesso Craxi occuparono, nel corso del decennio, la Presidenza del Consiglio, primi non democristiani dal tempo del regio governo Parri. Ulteriore e decisivo elemento di crisi fu, nel 1989, la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la conseguente svolta della Bolognina portata avanti dal segretario del PCI Achille Occhetto nello stesso anno.  Tutto ciò confluì, ancora prima della crisi definitiva dei vecchi partiti in occasione di Mani Pulite, nel referendum per l’abolizione della tripla preferenza che passò con una schiacciante maggioranza il 9 giugno 1991. L’abolizione delle preferenze plurime aveva come scopo quello di ristabilire il legame diretto tra cittadino ed elettore evitando le cordate tra candidati. Il quesito originale comprendeva, oltre alla riduzione delle preferenze da tre a una, l’introduzione di elementi di maggioritario nella legge elettorale che però non furono giudicati ammissibili dalla Corte Costituzionale. Queste istanze tuttavia, furono infine recepite dal seguente parlamento che stravolse le modalità di elezione dei rappresentanti con una legge elettorale completamente nuova, per la prima volta dalla nascita della Repubblica, fortemente maggioritaria. Il Mattarellum infatti, dal nome dell’ideatore Sergio Mattarella, prevedeva di eleggere il 75% dei parlamentari tramite collegi uninominali a turno unico ed il restante 25% in modo proporzionale. Per garantire la rappresentanza anche ai piccoli partiti al Senato i seggi proporzionali venivano assegnati con il cosiddetto meccanismo dello scorporo: ai voti ottenuti da ciascuna lista nel proporzionale venivano sottratti i voti ottenuti dai candidati vincenti della lista al maggioritario. Questo meccanismo, tuttavia, fu subito viziato dai partiti tramite il sistema delle liste civetta, liste non corrispondenti a nessuna vera formazione politica, con cui si presentavano i candidati al maggioritario. Questo fenomeno, che di fatto non fu mai avversato, contribuì a minare l’efficacia della parte proporzionale della legge. Alla Camera allo stesso modo era presente un parziale scorporo dei voti e una soglia di sbarramento per le liste al 4% nazionale. I seggi proporzionali erano inoltre assegnati su base nazionale per la camera e regionale per il senato, in accordo con il dettato costituzionale.

La seconda repubblica fu quindi caratterizzata, proprio per l’impianto fortemente maggioritario della legge Mattarella, da due coalizioni: la coalizione di centrosinistra, che raggruppava gli eredi del PCI e la sinistra DC, e quella di centrodestra che riuniva intorno alla figura di Silvio Berlusconi la destra democristiana, la Lega Nord e gli eredi del Movimento Sociale (adesso AN). In un panorama politico fortemente polarizzato dalla figura del leader della coalizione di CDX furono molto spesso le configurazioni variabili delle coalizioni a decidere l’esito delle elezioni. Il caso più lampante di ciò furono le elezioni del ‘94, prime del berlusconismo, in cui l’intuizione politica del cavaliere che riuscì a mediare con due forze fortemente antitetiche come AN e la Lega, condusse, per la prima volta nel paese la destra alla vittoria e i neofascisti al governo. La coalizione di sinistra invece, ribattezzata dal segretario del PDS Occhetto “gioiosa macchina da guerra” uscì sconfitta dalle urne, nonostante ne fosse la vincitrice annunciata. Questo non fu dovuto solo alla cattiva comprensione, da parte dei dirigenti del PDS, del fenomeno-Berlusconi, ma anche alla mancata alleanza con le forze di centro del PPI, erede “ufficiale” della DC che, a causa della legge elettorale, vide decimato il suo drappello di parlamentari. Le elezioni di due anni più tardi riproposero, poi, lo stesso canovaccio a parti invertite la defezione della Lega bossiana infatti, che riuscì a conquistare molti collegi del Nord, portò alla vittoria di misura della coalizione di CSX che, questa volta, era riuscita ad unirsi sotto l’egida del professore dell’Università di Bologna, democristiano moderatamente di sinistra, Romano Prodi.

Il tentativo di introdurre il maggioritario venne definitivamente stroncato nel 2005 dall’introduzione della legge Calderoli, detta anche “Porcellum” per la sua scarsa qualità, che riportava al proporzionale. Tuttavia è necessario riconoscere il coraggio dimostrato dai parlamentari del crepuscolo della Prima Repubblica nell’introdurre una legge elettorale che, forse ancora più di Mani Pulite, ha segnato il punto di svolta. Fu proprio quella l’unica occasione in cui si provò a cambiare prospettiva e rinnovare un sistema che aveva portato, nonostante la sua apparente instabilità, ad un totale immobilismo del sistema politico del paese. Si tentò di trasformare l’Italia in una democrazia più moderna che garantisse, per la prima volta nella storia repubblicana, l’alternanza delle forze politiche al governo. L’intuizione giusta dei politici democristiani, che al governo avevano sacrificato il loro partito, si rivelò comunque un fallimento nel lungo corso. Forse perché, sotto i cartelloni dei nuovi partiti, era mancata la volontà, da parte della classe politica, di effettuare una vera analisi del fallimento del modello precedente. Questo è ancora più evidente se si osserva la progressione del centrosinistra, principale fautore di questo stravolgimento. Dal ‘94 ad oggi, infatti, la nostra storia è costellata di occasioni mancate, lo stesso PD rappresenta in un certo senso il culmine di queste occasioni.  Non ci sono quindi impianti elettorali necessariamente migliori  o più democratici di altri ma leggi che più o meno si adattano a diverse situazioni, diverse epoche, diversi stati. Nonostante quindi le regole della democrazia siano cambiate in modo schizofrenico in questi ultimi 20 anni, il sottotraccia è rimasto lo stesso a evidenziare come una legge elettorale sia, alla fine, solamente una legge e, se non supportata da un’idea di Stato, di democrazia, rimane un impianto vuoto senza significato.

 

Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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